mercoledì 21 febbraio 2007

STAGIONI


Mario Rigoni Stern, Stagioni, Torino, Einaudi, 2006

Ma quando finisce l’inverno? È una domanda che nei giorni di fine marzo mi sento fare dai giovani, o anche dai vecchi che conservano poca memoria. Sì, nevica,di notte andiamo abbondantemente sotto lo zero e in casa accendiamo il fuoco nelle stufe. È però sufficiente un giorno di sole e i prati ritornano verdi perché la terra è in amore. La primavera è sempre bianco-verde; se non è per la neve, come da noi, è per i fiori dei ciliegi sulle colline ai piedi delle montagne.
p. 34

È un libro di frammenti, di scritti sparsi riuniti secondo un criterio stagionale. Nelle quattro sezioni del libro, infatti, sono riuniti brani che abbiano una certa attinenza con una stagione piuttosto che con un’altra. Ovviamente, il piano in cui vanno lette le stagioni è doppio: stagioni della natura ma anche stagioni della vita, con un forte ancoraggio al tempo in cui il tempo delle stagioni scandiva la vita umana con i ritmi della natura e gli usi ad essa correlati. Le stagioni, poi, sono anche metafora delle stagioni della vita, e non è un caso che il libro si chiuda con l’autunno, la stagione della decadenza prima del grande freddo.
C’è un filo conduttore di fondo legato al vissuto personale dell’autore e alle tradizioni della montagna, mischiando il tempo della memoria e l’esperienza panica della natura: i frammenti dell’inverno sono dedicati in gran parte alla campagna di Russia (la grande protagonista del suo libro più famoso, Il sergente nella neve); l’autunno, invece, è la stagione della caccia per eccellenza. Il passo delle stagioni, insomma, è in buona parte segnato dagli eventi della natura. Su tutto, comunque, un grande, innamorato inno alla montagna.
Non è un libro che si legge come un romanzo, ma che si legge a singhiozzo, perché ogni scritto è a sé stante, autonomo e compiuto in sé, e si apprezza per la bellezza della scrittura. Aveva ragione una persona che incontrai in treno, di ritorno da Firenze, quando notava che è un libro che si può interrompere e riprendere in ogni momento senza perdere il filo, in quanto ogni paragrafo è godibile in sé. Lo stesso concetto è estendibile aggiungendo che è un libro che si può iniziare da qualsiasi punto, senza che sia necessaria una sequenzialità della lettura: qualsiasi brano può essere il primo. Allo stesso tempo, nulla vieta di leggere ogni volta un brano per ogni stagione, e via dicendo. Insomma, rimane validissimo il “diritto di spizzicare” di cui parlava Pennac.

Al mattino gli stagni degli abbeveratoi sono velati dal ghiaccio e nelle zone in ombra la brina giorno dopo giorno aumenta la sua consistenza. Uno sparo lontano ti farà ricordare che il tempo della caccia sta per finire. Forse era in un capanno dove si erano posate le cesene; su quel lepre che poco prima hai seguito con la voce dei segugi: andavano per boschi e dossi e sentivi i cani ora vicini ora lontani; spegnersi, poi riprendere. Allora, con questo “suonar di bracchetti” ti accorgi anche di altri suoni: un sommesso e flautato zufolare di ciuffolotti confidenti sugli apici del bosco, la voce di un pettirosso dentro un cespuglio di rosa canina, un corvo imperiale solitario che vola alto e richiama la compagna che era rimasta indietro, la corsa di un capriolo e un suono di campagne che il bel tempo ti porta da ponente.
Così una dolce malinconia ti prende, la melanconia dell’autunno, e sotto un larice, all’asciutto, cerchi anche tu un luogo dove accucciarti per meditare sulle stagioni della tua vita e sull’esistenza che corre via con i ricordi che diventano preghiera di ringraziamento per la vita che hai avuto e per i doni che la natura ti elargisce.
Una mattina di dicembre vedrai il cielo uniformemente grigio, le montagne dentro le nuvole, i boschi più scuri e, da una catasta di legna, schizzar via lo scricciolo. Il suo campanellino d’argento ti dirà la prossima neve.
pp. 138-139

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