martedì 31 luglio 2012

Per Ivana Bristot Martinenghi (14 marzo 1930-13 luglio 2012)

Dire che avesse un carattere deciso sarebbe un eufemismo; di certo Jvana Bristot Martinenghi non si lasciava intimidire da nulla e da nessuno per arrivare ai propri obiettivi. E lo faceva non per ambizione personale, ma per amore del genere umano: di certo Jvana è stata una delle persona più generose che abbia mai conosciuto. Eppure, nonostante l’abbia frequentata per anni, mi rendo conto, ora, di quanto sia difficile tracciarne un ritratto esaustivo. O, meglio, di quanto sia difficile scriverne un ricordo senza correre il rischio di dipingerne un santino, e di rinchiuderla in quell’aura olografica di beatificazione che la collocherebbe lontana dalla realtà e, soprattutto, dalla possibilità di seguirne le orme. E l’esempio dato da Jvana, al contrario, è qualcosa di estremamente fattivo, concreto, e come tale deve essere ricordato e imitato: il rischio delle celebrazioni è di tenere le cose a distanza, di costruire degli emblemi irraggiungibili nella loro rara virtù, di relegare le persone in un empireo di torpore che non provoca le nostre coscienze. Jvana, al contrario, è sempre andata in profondità nelle cose, mai senza una scelta che non fosse un’assunzione di responsabilità sia individuale sia collettiva. Lo ha detto molto bene Gino Perferi, ex sindaco di Arese, in una lettera aperta rivolta all’amica appena scomparsa: «non Ti sei limitata ad incontrare ma Ti sei preoccupata di proporre sempre e comunque nuove iniziative e nuove attività. Non contenta di averne parlato, per paura che il tutto cadesse nel vuoto, traducevi in una lettera il progetto per avere la certezza che il medesimo fosse stato recepito. Non contenta di questo se necessario, e spesso lo era, ricontattavi la persona sempre nell’ottica che nulla andasse perduto. Sei stata una vera forza della natura che non si fermava di fronte a qualsiasi ostacolo.» Perché Jvana, in effetti, era un vero carro armato che non si lasciava dissuadere dal primo ostacolo, o che si rassegnava all’indifferenza delle amministrazioni pubbliche. Era stato questo spirito che le aveva permesso, nel 1984, di fondare la sezione di Arese della Confraternita di Misericordia, e di portare la prima ambulanza in quella che allora era una cittadina in piena espansione, ai confini dell’Alfa Romeo, dove stava acquistando una sua fisionomia urbana. C’erano le case, c’erano le ville, ma non c’era assistenza, e Jvana, lo ha ricordato bene Pierantonio Giudici (“Settegiorni”, 20 luglio 2012), di fronte a un giovane motociclista morto per un ritardo nei soccorsi, aveva avuto l’intraprendenza di non arrendersi, e di portare il pronto intervento anche in questa piccola realtà. Era solo l’inizio di quella iniziativa personale che avrebbe poi maturato l’adesione alla “Misericordia”, di cui è stata presidente fino al 1997, ma a cui è rimasta amorevolmente affezionata per tutta la vita: era una sua creatura, che l’ha fatta soffrire, ma che partiva da un progetto in cui aveva sempre creduto. Soltanto le centinaia di persone soccorse, e spesso salvate nelle situazioni più difficili, basterebbero come nota di merito e di gratitudine. Quando l’ho conosciuta, avevo appena preso la licenza media, nel 1998. Non sapevo nulla di lei. Ero un po’ prevenuto, a dire la verità, perché in una piccola città i maligni e gli invidiosi non mancano, ed io, ignaro, avevo creduto a certe malelingue. Ci eravamo conosciuti grazie a un gruppo di poeti locali, i “Poeti delle Groane”, che avevo appena cominciato a frequentare, e che avrei frequentato per qualche anno, di cui Jvana faceva parte. Accanto al volontariato, infatti, non le era mai mancata una genuina, forse ingenua ma sincera vena poetica, e nel gruppo si era spesa con la stessa energia che aveva messo nel volontariato. Una poesia di sentimenti, la sua, come registrazione spontanea di emozioni, senza troppe preoccupazioni di forma e di stile, ma diretta e preoccupata di una comunicativa immediata. Ricordo un comune amico attore, che avevo sentito recitare alcuni suoi versi, dirmi che riusciva a interpretare meglio i suoi testi, rispetto a quelli di altri, forse perché li capiva di più! È bastato poco, comunque, per rendermi conto dell’errore in cui ero incorso nei suoi confronti, e che Jvana era una persona forse un po’ cocciuta, ma senza dubbio carismatica, e che tanto aveva dato di sé, e che tanto aveva anche sofferto, talvolta persino a causa del bene che aveva fatto. Non mi ci era voluto molto, insomma, a capire che era una di quelle persone che non ti lasciano indifferente, e che una volta incontrare non si dimenticano più. Da allora ha voluto bene anche a me come se fossi un nipote, anche se di nipoti di sangue ne aveva già molti. Ma da subito non aveva esitato ad aprirmi qualche finestra della sua lunga e tortuosa esperienza di vita. Non bisogna infatti dimenticare che l’Jvana grintosa e intraprendente attiva ad Arese per più di trent’anni aveva alle spalle un retroterra travagliato e avventuroso, in cui si mescolavano i ricordi della Libia -quasi una terra promessa dell’infanzia prima e rivista poi con occhi più adulti, finchè gli italiani han potuto risiedere in quel paese- e una adolescenza in tempo di guerra di certo non facile. Jvana non si è mai dimenticata, infatti, il fucile dei partigiani nella schiena, quando erano venuti a prendere suo padre Augusto, un uomo che lei ha sempre adorato e additato come un esempio di generosità, di dignità e di virtù. Ma gli inglesi lo avevano arrestato dopo la Liberazione, rovinandolo, raccontava, irrimediabilmente, e rendendo difficile la vita anche a lei e alle sue sorelle. A lei, che era un bellissima quindicenne, tutto questo era costato in prima persona: dal mondo ovattato delle ragazze di buona famiglia cresciute nel regio educandato delle fanciulle di Milano, infatti, era piombata nella vita di miseria e di stenti, a doversi rimboccare le maniche per mantenere la famiglia. Il baciamano e le buone maniere della bella società, in quel momento, servivano a poco per mantenere una famiglia, e a lei, la maggiore di quattro sorelle, questo era costato dei sacrifici: primo fra tutti, con enorme dispiacere, dover abbandonare gli studi. Non riusciva, sua madre da sola, a far studiare tutte e quattro le figlie, e Jvana l’aveva sentita confidare quanto fosse combattuta, in quel momento, a dover far smettere gli studi alle figlie: avrebbe dovuto dire a Jvana, essendo la maggiore, di smettere e occuparsi delle sorelle più piccole, ma questo non le sembrava giusto, per cui preferiva far smettere a tutte, anche se la secondogenita era una studentessa promettente. Anche Jvana ne era cosciente, e decise di sua iniziativa di abbandonare gli studi, affinché la sorella proseguisse fino alla laurea: fece credere a sua madre che studiare non le interessava, e che preferiva lavorare. In cuor suo, invece, avrebbe sempre rimpianto quella scelta: il desiderio di conoscere, di imparare, l’avrebbe accompagnata sempre, cercando di recuperare in qualche modo il tempo perduto. Certo furono tentativi asistematici, mossi più dalla passione che da un percorso programmato, ma questo non le aveva impedito di diventare un’educatrice attenta e premurosa. Si potrebbero (e si dovrebbero) dire ancora molte cose di Jvana: la sua vita andrebbe tutta scritta in modo piano e ordinato, come si fa per la vita dei santi. Prima o poi bisognerà prendere la decisione di farlo. Dalle poesie e da alcuni racconti si recuperano dei lacerti di questa esperienza, che andranno riuniti per lasciare una traccia di questo suo grande esempio. A me rimane il rammarico di non aver annotato, volta per volta, i suoi lunghi racconti: era fra i propositi rimandati troppo a lungo, fino a rendercisi conto, nel momento sbagliato, che era ormai troppo tardi. Queste parole sono solo un omaggio sbiadito verso una cara amica, a ottant’anni ancora molto più giovane di molti giovani di anagrafe, per ricordare questo lungo affetto. Ma è anche un omaggio a un grande esempio: in tutto quello che ha fatto, Jvana aveva sempre precisa l’idea di cosa fosse la trasparenza, il rigore e, soprattutto, la correttezza dei rapporti umana. Non sempre è stata ricambiata: non tutti sono stati capaci di apprezzare, in quella franchezza a volte brusca ma mai insolente, quella limpidezza di intenzioni e quella cura perché le cose fossero fatte come andavano fatte. Il rispetto, insieme all’amicizia, sono valori in cui ha sempre creduto, e che ha sempre trasmesso: significava capire che nei rapporti umani era necessario, prima di tutto, un rispetto reciproco e una comunicazione trasparente, senza sotterfugi o mezze parole, perché chi non ha nulla da nascondere non ha motivo di non essere sincero e corretto nei rapporti con gli altri. Ma se c’è un insegnamento che più di altri si può trarre dalla vita di Jvana è il significato di spendersi per il prossimo disinteressatamente: fare del bene senza un interesse personale, senza averne o aspettarsi un ritorno. È quanto ha sempre cercato di trasmettere ai “suoi” volontari (e non solo), cioè l’intima gioia di aiutare chi ha bisogno, perché lo spirito del volontariato è proprio quello di non voler trarre né profitto né guadagno, se non un arricchimento interiore. E questo non significava soltanto darsi al volontariato attivo o all’opera di soccorso: era un modo di vivere, un “abito” da indossare nel quotidiano. Ancora negli ultimi giorni, in un letto d’ospedale, le dispiaceva sentire la sua vicina di corsia sofferente e non poterla aiutare: e avrebbe avuto di che pensare ai propri guai e alle proprie sofferenze. Ma la divisa del soccorritore non si smette mai, nemmeno quando ci si prepara all’incontro con nostro Signore.