martedì 28 dicembre 2010

Ritratti di gruppo

Nei primi anni del liceo, mi ero fissato di voler dipingere un grande quadro di famiglia, cioè un’unica tela di grandi dimensioni in cui fosse riunita tutta la mia famiglia intorno a un tavolo. Non volevo ovviamente fare una foto di gruppo dipinta a olio, ma un’opera di montaggio di persone prese da foto singole e composte in modo da essere riunite intorno a un’unica tavola. Del resto, il compito non sarebbe stato poi tanto complicato, visto che la maggior parte delle foto di famiglia, di solito, si fanno in occasione delle feste, degli anniversari o in altre ricorrenze simili e che, di solito, sono quasi sempre foto di pranzi e di cene. Questo mi avrebbe senza dubbio facilitato, perché si sarebbe trattato di montare intorno ad un’unica tavola virtuale tutti i componenti, presi in momenti diversi e in varie occasioni. Volevo fare qualcosa che somigliasse alle Visite di Renato Guttuso, dove il pittore di Bagheria faceva confluire intorno a una stessa tavola personaggi di epoche diverse, faceva dialogare come commensali personaggi storici che fra loro non si sarebbero potuti mai incontrare, oppure Picasso insieme ad alcuni personaggi dei suoi quadri, come un torno, una demoiselle di Avignone e così via. In effetti, quel sistema mi avrebbe permesso di riunire in un’unica composizione un gruppo familiare che in un’unica foto di gruppo istantanea non avrei potuto raggruppare anche per ovvi motivi anagrafici. In questo modo, invece, potevano stare insieme viventi e defunti, come a mostrare metaforicamente la presenza costante anche di chi si è già congedato. Avevo anche pensato che, per rendere visibile questa cosa, avrei potuto dipingere a colori le persone che ho conosciuto, in bianco e nero quelle che, al momento del quadro, erano già mancate e quelle che non avevo mai conosciuto. Questo avrebbe significato una continuità di intenti e di frequentazioni.
A dire il vero, c’era un precedente, perché alle elementari la maestra aveva dato un giorno il compito di disegnare la propria famiglia, ed io avevo schierato tutti i miei parenti in una immaginaria foto di gruppo nell’ingresso della casa romana dei genitori di papà. C’erano tutti quelli che facevano parte, allora, del mio emisfero familiare: tutta la famiglia di papà, in sostanza, più nonna Adriana, la madre di mamma. E tutti abbastanza caratterizzati. I visi, ovviamente, erano tutti uguali, un ovale con gi occhi e una “u” a fare da bocca, ma il vestiario li connotava in modo tipico. Nonna Adriana, ad esempio, aveva un pesante paltò marrone e la borsetta in mano, ed era molto riconoscibile.
Non c’era suo marito, nonno Lidano, perché era venuto meno nel 1965. Questo, negli stessi anni delle elementari, mi aveva del resto creato qualche problema. La stessa maestra, infatti, aveva fatto anche un altro esercizio per far imparare ai bambini il proprio albero genealogico, in cui si chiedeva di disegnare la mamma, il papà e i rispettivi nonni. Mi veniva difficile, sinceramente, disegnare qualcosa che somigliasse alla faccia di una persona che non avevo conosciuto. “Disegnalo per come te lo ricordi”, era stata la risposta un po’ sbrigativa, a cui non ritenni opportuno rispondere facendo presente che non potevo avere ricordi che precedessero di almeno ventun anni la mia nascita. Avevo però visto una piccolissima foto in bianco e nero a figura intera di cui avevo in testa una immagine non molto definita, e feci ricorso a uno sforzo di memoria per fare qualcosa che potesse somigliargli. A dire il vero, quando molti anni dopo trovai altre sue fotografie, mi resi conto che era molto diverso dall’immagine mentale che me ne ero costruito: era alto e con un naso importante che in quella piccola foto col cappello calcato in testa e un ingombrante cappotto non avevo davvero indovinato. Lo avevo però disegnato in bianco e nero, un po’ per distinguere, nella mia mente, i parenti vivi da quelli defunti, e un po’ perché da una foto in bianco e nero mi veniva difficile cavare una foto a colori. Certo, nella sintesi del disegno infantile non sarebbe stato poi così difficile fare qualcosa di verosimile, ma avevo già il vizio che bisognasse raccontare la verità e soltanto la verità, per cui non avrei potuto dare a quel volto un colore se non sapevo che colore potesse avere, né colorargli i vestiti se poi il loro colore vero non era quello. In ogni caso, non sono mai stato capace di raccontare balle, o di inventarmi qualcosa che non esistesse davvero.
Non so dire se quell’idea di distinguere persone a colori e in bianco e nero venisse soltanto dal ciclo di tele guttusiano o se possa avere qualche aggancio anche in questa esperienza infantile: al liceo, quando progettavo questo grande telero, pensavo soltanto a Guttuso e non mi ricordavo minimamente di quella cosa infantile. pensavo anche che avrei poi potuto regalare il quadro a nonna Ada e nonno Alberto, che avevano una sala grande e lo avrebbero potuto appendere lì, e tutta la famiglia avrebbe potuto vederlo. Pensandoci adesso, però, credo che nonna Ada non avrebbe mai appeso in casa propria un quadro del genere!
Avevo persino pensato di fare sbucare mia cugina Maria Cristina da sotto il tavolo, perché avevo una fotografia scattata ai cinquant’anni di matrimonio dei genitori di papà in cui si nascondeva sotto al tovaglia. Nella stessa occasione, poi, c’era anche una foto di Marco piccolissimo in braccio a mio padre, e anche questo mi semplificava le cose: con una posizione sola potevo inserire due persone diverse. Erano entrambi piccolissimi, allora: sui quattro anni Cristina, un anno e qualche mese Marco.
Non lo feci mai: mi limitai a qualche schizzo a matita su carta da pacco di alcune persone singole, presi da fotografie naturalmente, ma con risultati non esaltanti. Ricordo con soddisfazione solo il ritratto della zia Silvia, zia paterna di papà, perché era un profilo con die tratti abbastanza marcati, quindi con un viso più semplice da caratterizzare. Poi, però, per pigrizia o per trascuratezza, non ne feci nulla.
D’altra parte, poi, nel tempo in cui io pensavo al da farsi, il numero delle persone da dipingere in bianco e nero stava progressivamente salendo e i miei cugini sono diventati grandi, e la cosa sarebbe diventata molto complicata: non sarei riuscito a tenere il passo dell’aggiornamento. Oltretutto, sarebbe stato imbarazzante se mi fossi dimenticato qualcuno, o perché avessi ritenuto opportuno non inserirlo o, più banalmente, perché non ne avessi una foto decente. È uno dei problemi della memorialistica: quello che si trova a non essere citato, o ad essere liquidato in poche battute, si incazza sempre un pochino!
Del resto, per i defunti potevo usare solo foto d’archivio, ma per i viventi, avrei dovuto usare solo foto recenti, per lo stesso principio per cui si deve dire soltanto la verità. Mi sembrava ridicolo, in fondo, comporre insieme persone vive ma desunte da foto di tempi diversi: avrebbe creato un certo disorientamento se mia madre fosse sembrata più vecchia di mia nonna, o se magari nonno appariva di mezza età e coetaneo dei suoi figli, e magari sue sorelle anziane, non avendone foto giovanili sotto mano! Avrei ottenuto quel disorientamento che si ha talvolta al cimitero su certe lapidi: in un primo momento viene da pensare che è ingiusto che una donna così giovane e bella sia morta così presto, poi si leggono le date e in realtà ci si accorge che è un vezzo narcisistico (postumo) di una attempata novantenne che vuole tramandare il ricordo di quand’era una fanciulla in fiore. Del resto, esistono anche casi illustri: Isabella d’Este, ho imparato all’università, nei ritratti non invecchia mai!
A dire il vero, però, in quegli anni di liceo mi sono anche reso conto che non avevo poi una gran predisposizione alla ritrattistica, e questo avrebbe creato un altro tipo di problema. Come si sarebbero potuto offendere gli assenti, ci sono anche le persone che al contrario possono sempre dirti che le hai fatte brutte, o che loro non sono così. Poi c’è chi non si riconosce, oppure i “perché mi hai messo vicino a lui? Io volevo stare vicino a lei, o a lui”: tutte domande di fronte alle quali gli argomenti del bel comporre non avrebbero nessuna tenuta.
Con questo, però, non ho rinunciato a fare qualche ritratto. Alle medie avevo fatto due ritratti dal vivo di nonna Ada e nonno Alberto. Nonno era un uomo pacifico e paziente, quindi stare seduto un’ora di fronte a un nipote rompipalle che voleva a tutti i costi fargli il ritratto; il ritratto di nonna era stato già più complicato, perché nonna era meno paziente e più spartana, e non amava le perdite di tempo. Ne furono entrambi soddisfatti comunque, anche se per nonna il massimo del complimento era stato un “Imparerà, imparerà!”. Le piaceva però che le avessi fatto il mento pizzuto, che è tipico, dice, delle persone intelligenti. Tuttavia, pur non essendo un ritratto mimetico, dei tratti caratterizzanti in effetti li avevo colti abbastanza bene (prima e unica volta in cui ci sono riuscito!), ma non ero soddisfattto perché ero convinto che il primo requisito della pittura fosse la mimesi, e quello aveva troppe ingenuità per sembrare un ritratto fotografico. Avrei capito molto tempo dopo che il bello del ritratto non era quello: allora, però, il modello di riferimento non era certo l’iperrealismo, ma quella versione sentimentale e vagamente psicologica della ritrattistica che era tipica dei ritrattisti di strada, di quelli che in mezz’ora “ti fanno i ritratto”. Ne possiedo uno anche io, fatto a dodici anni a Firenze da una pittrice vicino agli Uffizi; tutto sommato fatto abbastanza bene, o d auna delle poche ritrattiste di strada che sapessero disegnare!
Ad ogni modo, quei due ritratti, debitamente incorniciati, sono stati molti anni appesi nel salotto della casa di Roma, almeno finché è stata viva nonna. Negli anni successivamente, Gilda, che aveva continuato a vivere in quella casa, non aveva voluto riappenderli, perché le faceva impressione, diceva, la vivezza di caratterizzazione con cui erano state tracciate le fisionomie dei suoi genitori. Forse un qualche effetto quei ritratto lo avevano effettivamente avuto. Avevo tentato anche un doppio ritratto, unendo sulla stessa tela i due profili dei nonni in una tela, dei miei genitori su un’altra. In quel caso, però, per trarre delle silhouette nere adatte avevo dovuto fare appositamente delle foto dei profili. Avrei voluto fare tutta una serie, ma la costanza mi è mancata e soprattutto, a lungo andare, rischiava di diventare una cosa troppo monotona e ripetitiva.
C’era però una constatazione di ordine generale. Forse, pensandoci a posteriori, era una dichiarazione del fatto che già allora, prima che decidessi di limitarmi a fare i ritratti solo con le parole (o con la fotografia eventualmente), mi era più congeniale il ritratto singolo rispetto a quello di gruppo, il dettaglio invece del grande insieme, la microstoria, volendo, rispetto al grande racconto. O quando le dimensioni del racconto aumentano, in effetti, questo nasce non per fusione di una grande composizione, ma, come mi è stato insegnato, per somma di dettagli. Non so se sia la strada giusta, ma forse, più semplicemente, ciascuno fa quello che crede gli riesca meglio.

lunedì 13 dicembre 2010

Alan Bennet, Una vita come le altre

"In genere preferiamo che il film della nostra vita sia ambientanto in uno scenario fisso e che il cast sia per lo più stabile, specialmente quando invecchiamo; noi possiamo cambiare ruolo, livello, partner, ma è meglio se gli amici e i parenti (le comparse del nostro film) restano fissi nella loro posizione abituale. La mrote di un caro o di un amico o, evento quasi altrettanto increscioso, un divorzio, cambiano la scena; provocano un doloroso terremoto"

(Alan Bennet, Una vita come le altre, Adelphi 2010)

domenica 14 novembre 2010

congedo. 8 novembre 2010


Non avrei mai creduto, poco più di un anno fa, che sarebbe rimasto a disposizione così poco tempo, e che sarebbe volato così rapidamente, e che si sarebbe interrotto in maniera così brusca.
Mi mancherà quella schiuma da barba come regalo di Natale, quando sono anni che non taglio la barba. Ma mi mancheranno tante altre cose. Qui, davvero, si chiude una stagione.
Sii serena, Gilda, ora che hai raggiunto quella pace e quella serenità che qui hai tanto cercato...

lunedì 18 ottobre 2010

Convegno sulla Metafisica

Milano e Firenze

1909-1911 e 1919-1922

Origini e sviluppi dell’arte metafisica

Milano, 28 e 29 ottobre 2010

Università degli Studi di Milano, Sala Napoleonica

Palazzo Greppi, via S. Antonio 12 – Milano



PRIMA GIORNATA – 28 ottobre 2010, ore 10 - 13

PARTE I – Milano e Firenze (1909 – 1911)

presiede Maria Grazia Messina


Paola Italia (Università di Siena)

“Leggevamo e studiavamo molto”: Alberto e Giorgio

de Chirico alla Braidense (1907-1910)

Paolo Baldacci (Archivio dell’Arte Metafisica, Milano)

“Quella nostra poesia metafisica”: genesi, cronologia e fonti

di un’estetica globale (1908-1911)

Gregorio Nardi (Pianista e critico musicale)

“La musica più profonda”. Ipotesi sul lavoro musicale

dei fratelli de Chirico tra il 1909 e il 1911



ore 14.30 - 18.30

Tra Francia e Italia, la crisi futurista del 1914

presiede Antonello Negri

Maria Grazia Messina (Università degli Studi di Firenze)

Primavera 1914: Carrà e Soffici a Parigi tra Apollinaire,

De Chirico, Picasso e i russi delle “Soirées de Paris”

PARTE II – Milano e Firenze (1919 - 1922)
Gerd Roos (Archivio dell’Arte Metafisica, Berlino)

Introduzione ai primi Anni Venti: svolta e continuità, problemi

aperti e linee di ricerca

Federica Rovati

(Università degli Studi di Torino)

Carrà nella Milano del dopoguerra (1919 – 1922)



SECONDA GIORNATA – 29 ottobre 2010, ore 10 - 13



presiede Paolo Baldacci

Nicol Mocchi (Archivio dell’Arte Metafisica, Milano)

Cultura artistica italiana e sfondo politico tra il 1919 e

il 1922: de Chirico, Carrà e Savinio

Fabio Amico (Università degli Studi di Firenze)

“Il Convegno” di Enzo Ferrieri e “Il Primato Artistico Italiano”

di Guido Podrecca: due periodici milanesi del primo dopoguerra

Flavio Fergonzi (Università degli Studi di Udine)

Roberto Longhi e il suo linguaggio, ovvero: perché la critica

italiana non riuscì ad accettare de Chirico

Discussione



ore 14.30 - 18.30
presiede Flavio Fergonzi

Luca Nicoletti (Università degli Studi di Milano)

La ricezione critica di de Chirico nelle mostre tra il 1918 e il 1922
Emanuele Greco (Università degli Studi di Firenze)

De Chirico alla Fiorentina Primaverile (1922)

Antonello Negri (Università degli Studi di Milano)

“Il ritorno al mestiere” nel quadro dell’arte europea del dopoguerra

Conclusioni

per informazioni e-mail: info@archivioartemetafisica.org

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martedì 21 settembre 2010

Rosanna Forino. Scansioni continua



ROSANNA FORINO
Scansioni continue

A cura di Luca Pietro Nicoletti

Dal 26 ottobre al 13 novembre 2010
Inaugurazione: martedì 26 ottobre ore 18,30

Associazione Culturale Renzo Cortina, Via Mac Mahon 14/7, Milano
Tel: 0233607236 Fax: 0234536329 E-mail: artecortina@artecortina.it

Nel lavoro di Rosanna Forino si incontra un continuo rimando di risonanze musicali, di accordi e di armonie, di forme che si muovono con ritmo lento, cadenzato. Se la geometria è la certezza della misura delle cose, qui il gioco si basa su una composizione che sa coniugare le palizzate della linea retta con le sinuosità della linea curva, la materia più sensibile alla luce con il segno più nitido e pulito. Se nelle sue opere l’ordine regna sovrano, questo non toglie che sia un ordine dovuto a una armonia degli elementi, più che a una dura costruzione formale. Si percepisce come una certa gioia della geometria, di cui dà ulteriore conferma l’accordo dei blu più squillanti del mediterraneo con i bianchi più candidi e più tersi. Rosanna Forino dipinge su tela come se fosse carta, ed usa la carta come se lavorasse su tela: la sua è una tecnica mista che può migrare da un supporto all’altro mantenendo la sua forte marca grafica. Il segreto sta tutto in una capacità di calibrare le tecniche che varia, all’interno della stessa opera, dal segno del pennino alla pennellata a guazzo, alla campitura compatta, fino a interventi materici di superficie ottenuti per via di pasta acrilica modellata a spatola o di collage di frammenti di cartone ondulato. Questo suo mondo di linee e segni fluttuanti sul campo bianco e abbagliante dà l’impressione di una misurata improvvisazione musicale.




Rosanna Forino nasce a Cernobbio nel 1926. Introdotta all'Accademia di Brera da Elmo Diegoli, studia poi disegno, pittura e incisione sotto la guida di Augusto Colombo. Negli anni '50, dopo un periodo di solitudine creativa, frequenta gli artisti attivi di Milano: Baj, Dova, Luigi Veronesi, Sergio Dangelo ed in particolare è sensibile alla lezione cromatica di Tassinari. Dagli anni ’60 inizia a lavorare in Costa Azzurra. La sua prima personale è del 1972 a Vicenza (Galleria al Corso). Del 1979 è la personale al Palazzo Arengario di Milano. Dal 1981inizia a presentare la sua opera a livello internazionale: Inghilterra, Francia, Germania, Olanda, Stati Uniti. Nel 1990 è invitata a Mosca dalla Fondazione Culturale Sovietica per una esposizione personale. Selezionata dal Musèe Municipal de Saint Paul de Vence, vi tiene una personale nel 1992. Viene invitata a Pechino alla Beijing 2° International Art Biennale China nel 2005.
Catalogo in galleria.

La mostra proseguirà fino al 13 novembre con i seguenti orari:
10.00-12.30; 16.30-19.30 chiuso domenica e lunedì mattina.

sabato 14 agosto 2010

Panariello e i film horror

quest'uomo e un mito!
http://www.youtube.com/watch?v=HNHNKTegPmw
http://www.youtube.com/watch?v=_65f-cl4On4&feature=related

lunedì 19 luglio 2010

Per Mario Calzini


Questa mattina si è spento anche lo zio Mario. Solo in tempi abbastanza recenti mi sono reso conto che, a suo tempo, era stata una personalità di una certa importanza in campo cinematografico. Purtroppo ne ho dei dati molto imrpecisi, ma so che Mario Calzini (Roma 1920-2010), ingengere, era un esperto di storia della tecnica cinematografica, alla quale aveva dedicato anche due libri:Cento anni di cinema al cinema, Roma 1995 e Storia tecnica del film e del disco, Coppelli Editore, 1993.
Era stato direttore prima della Tecnostampa, dove aveva progettato alcune macchine per lo sviluppo della pellicola cinematografica e per il recupero dell'argento dallo sviluppo della pellicola. Dopodichè è stato a lungo direttore tecnico di Cinecittà. In questo ambito, era stato fra i primi a preoccuparsi, nel dopoguerra, del riversamento e della conservazione dei Cinegiornali di guerra dell'Istituto Luce: in tempi ancora non sospetti, insomma, aveva capito che si trattava di un importante documento storico, e che come tale andava conservato, prima ancora che fosse assodata una accezione allargata, se si vuole, del concetto di bene culturale. Forse è questo l'aspetto per cui maggiormente mi sento di rendergli merito, perchè è quello a cui, tutto sommato, sono più sensibile. Ciò non gli toglie però il merito di essere stato un decano della tecnica e della proiezione cinematografica: del cinema "al cinema", insomma, come recita il suo libro più importante.
A suo tempo, mi dice papà, era stato a chiamato, in qualità di tecnico, a stilare la perizia circa l'autenticità della fotografia diffusa dalle Brigate Rosse che ritraeva Aldo Moro, accertando che non si trattasse di un fotomotaggio.
non trascuro, però, il lato familiare, perchè per me, lo zio Mario, aveva prima di tutto sposato una Nicoletti, cioè la sorella di mio nonno Alberto, Giuseppina; ed è questo che più di altro me lo rende familiare.


http://www.proiezionisti.com/pagine/calzini.php
http://www.mediasalles.it/ybkcent/ybk95_i.htm#ita

venerdì 9 luglio 2010

Ricordo di Dimitri Plescan

Non posso dire di averlo conosciuto, perché quando ebbi l’occasione di incontrarlo era già molto malato, inchiodato a una sedia a rotelle e chiuso in un mutismo che non si è mai riuscito a capire quanto fosse un limite fisico e quanto invece non fosse una scelta determinata di esilio dal mondo. Non sono mai riuscito a capirlo, ma anche per chi gli è stato più vicino, Dimitri Plescan è sempre stato un uomo insondabile, in un certo senso misterioso. Quando lo vidi per la prima volta, all’inaugurazione di una mostra di Giovani Cerri, era già così, e quella doveva essere una delle sue ultime, se non proprio l’ultima, uscite per partecipare a una inaugurazione. Ed era presente soprattutto per un valore affettivo, dato che Dimitri aveva tenuto quasi a battesimo (battesimo artistico ovviamente) Giovanni, presentandone una delle prime mostra, a Lodi, nel 1993. Una mostra che mostrava molti punti comuni fra il giovanissimo Giovanni, che aveva più o meno l’età che io ho adesso, e il più maturo pittore, amico del padre, Giancarlo Cerri.
È però soprattutto l’amico Gabriele Poli che me ne ha parlato talmente tanto che è come se lo avessi conosciuto di persona anche io, o almeno abbastanza per rendermelo familiare, anche se sempre con questi tratti di figura imperscrutabile che ne facevano, ai miei occhi, come una figura leggendaria, con un nome esotico ma molto musicale, un nome che non ne tradiva in realtà i natali milanesi, nel 1931. Era stato suo allievo al liceo Boccioni di Milano, e da allora gli era sempre rimasto legato: forse, anche nel suo profilo artistico, è stata la figura che ha contato di più negli anni formativi, anche più dei successivi anni di Accademia. Ma al di là di questo, c’era da parte di Gabriele, nei confronti del Plescan, un rapporto non solo di stima, ma una vera e propria amicizia coltivata per decenni.
Di poche parole, estremamente meditativo e di grande lentezza, ma nello stesso tempo di acuta e pungente intelligente, posso azzardarmi a dire che degli artisti della sua generazione, a Milano, Dimitri Plescan sia stato quello con la mano di più felice invenzione creativa, anche se fu al tempo stesso la più parca.
Di lui si può dire, come si usa per molti artisti antichi dal catalogo numericamente assai limitato, che fu “pittore di pochi quadri”, ma di molti disegni, di cui molti sui supporti più anticonvenzionali e più disparati. Piccoli e mordenti schizzi di segno ruvido e filamentoso fiorivano sui bordi di fogli e volantini, in mezzo a scritti e appunti, a brevi note di polemica o a pensieri sparsi. Riunire queste carte sarebbe come ricomporre un diario, o i frammenti di un unico discorso fra cui si dovrebbe trovare il collante emotivo.
Questo non significa che non esistessero disegni compiuti, fatti con tutti i crismi dell’opera finita, ma non c’era mai quella cura o quell’attenzione che strizzava l’occhio al mercato: quello che contava era il fare, lento e laborioso, di continua riflessione. È una osservazione che ho riscontrato ricorrente nel ricordo di tutte le persone che ho incontrato e che li hanno conosciuti bene: i Plescan, sia Dimitri sia suo fratello Pietro (anche lui pittore), erano persone che pensavano molto e a lungo, che ponderavano tutto con estrema lentezza, con apparizioni e presentazioni pubbliche della loro opera che erano via via sempre più sporadiche.
Non ne ho ricordi personali, se non di un uomo molto malato, chiuso in un mutismo impressionante, perché riusciva ad essere fortemente comunicativo anche senza l’uso della parola, dalla sola mimica del volto: parlava con gli occhi, con l’inarcarsi delle sopracciglia e un leggero movimento ai bordi della bocca, ma abbastanza per fare capire che era presente e cosciente, e che in un certo senso esprimeva la sua. Ricordo una volta che Gabriele gli dissi “Dimitri, mettiti in posa ch ti faccio una foto” e lui gli rispose con una smorfia ironica arricciando il naso.
Mi aveva colpito molto entrando nella sua abitazione con Gabriele, una delle prime volte che vi mettevo piede, un enorme manifesto della mostra di Picasso a Palazzo Reale alla metà degli anni Cinquanta, da cui sbucava con prepotenza Guernica, esposta per la prima volta in Italia nella Sala delle Cariatidi. Da una parete del salotto campeggiava questo grande monito, che era rivelatore, a mio avviso, dell’approccio alla vita e del pensiero del suo padrone di casa. Ma ricordo anche, per intima passione bibliofila, un catalogo di interessi eclettici e disparati che saltavano fuori dalla sua biblioteca, in cui libri di storia dell’arte si mischiavano a testi di letteratura e filosofia, di psicologia e di altre materie. Fra tutti, mi colpì molto trovare lì una copia del libro di Oliver Sachs sull’Emicrania, e quello di Lang su “L’io diviso”. Quest’ultimo, in particolare, sono convinto che sia stato importante nell’elaborazione di alcuni suoi disegni di uomini dissociati, fisicamente divisi: ad uno sguardo superficiale si potrebbe pensare al Barone dimezzato di Calvino; ma a uno sguardo profondo, penso che quel disegno fosse una metafora dell’io diviso.
Del resto, tutta l’opera di Dimitri Plescan procedeva per metafore, per visualizzazione di concetti. Un disegno per tutti, un grande carboncino con un castello di carte che prendeva la forma, dai contorni, di una falce e di un martello: era stato fatto pochi anni prima della caduta dell’Unione Sovietica, di cui percepiva le fondamenta vacillanti (un castello di carte appunto). Anche da questo nasceva il ritratto, per la maggior parte tramandatomi ancora da Gabriele, di un uomo di giudizi fondati, con delle intuizioni lungimiranti al limite della preveggenza, in anticipo su fatti che si sarebbero verificati in tempi non troppo successivi.
Anche su questo, secondo me, si fonda il mito di Dimitri Plescan. Spegnendosi la mattina dell’8 luglio, viene a mancare un uomo dai contorni sfuggenti, inafferrabile e impenetrabile sotto certi aspetti, che per una vita ha costeggiato, come voce critica sempre fuori da ogni possibile manierismo e da ogni possibile coro, la temperie del Realismo Esistenziale e la crisi dell’identità moderna. In questa chiave, come scrisse una volta di lui Vanni Scheiwiller, si andava oltre il realismo sociale per una lettura nuova del disagio dei tempi: «Ringraziamo tutti Plescan che tenta di guarirci da una pittura fin troppo “associata”: e buonanotte Guttuso!».

lunedì 28 giugno 2010

Un museo sul K2

Un anziano amico pittore mi ha raccontato lo stravagante progetto di un suo collega, che ho conosciuto, al quale frulla in testa l’idea di realizzare un suo museo. Fin qui tutto bene, peccato che l’idea sia di fare questo museo sul K2, in una lega metallica speciale e costosissima, molto resistente alle alte come alle basse temperature. Il dettaglio è che si tratta di un museo blindato, precluso ai visitatori (ma del resto in cima al K2 non ci sarebbero andati in molti). Il termine “museo” con cui mi venne presentata questa idea, infatti, è tutto sommato impropria, trattandosi in realtà di un involucro realizzato in questa lega metallica, da collocare in un crepaccio di quella montagna. Bisogna però farsi una domanda: qual è la ragione di un “museo”, o di questa operazione in generale, in un luogo così impervio e così isolato, anzi davvero irraggiungibile? La spiegazione è semplice e si giustifica con la convinzione che fra due-trecento anni avverrà un grande rivolgimento, che la Terra come oggi la conosciamo non ci sarà più, mentre forse sulle alte cime non si soffrirà di questi sconvolgimenti. Le acque sommergeranno tutto e, allora, il grande involucro, intatto, ritornerà in superfici. In tal modo il museo sulla cima del K2 avrebbe superato la catastrofe e si sarebbe conservato per la posterità o, meglio ancora, per i superstiti. In buona sostanza somiglia a un deposito o, meglio ancora, a un bunker, a un container iper protetto che avrebbe tramandato il suo lavoro. Ha scritto anche un libro in cui racconta la sua vita fin dai primissimi giorni, e che si chiude, nelle pagine finali, con questo sconvolgente scoop. L’idea nasceva dalla presa di coscienza della difficoltà, a settant’anni compiuti, di poter entrare da maestro nei musei del nostro tempo, che le sue opere non sarebbero state accettate per tutta una serie di motivi. A questo punto, l’idea di fregare tutti sul lungo periodo e di proiettarsi in un incerto futuro, su uno scenario apocalittico: tutto sarebbe andato distrutto, ma le sue tele arrotolate dentro l’involucro, i suoi cataloghi e il libro della sua vita sarebbero rimasti come testimonianza della civiltà del nostro tempo. I nomi dei maestri del passato, anche recenti, saranno spariti tutti, non ci sarà più traccia nemmeno dei grandi della storia, ma i suoi dipinti saranno segni dello spirito di questa epoca!
Il progetto è talmente irreale da sembrare una burla, o una proposta fantascientifica fatta giusto per ridere, o per fantasticare su mondi possibili, non, come invece è, con la ferma convinzione della bontà di questa idea e del fatto che questa sia facilmente realizzabile, anzi affermando di avere persino dei contatti per uno sponsor che finanzi l’impresa. Ci sarebbero una serie di “ragionevolissime” spiegazioni fornite per aggirare i numerosi problemi tecnici che l’impresa pone, che però grazie al parente, all’amico e all’amico dell’amico sarebbero tutti superabili. Il punto debole, però, era soprattutto uno: chi ci dice che i superstiti che apriranno l’involucro saranno in grado di leggere in quei cataloghi e capire di cosa si parla, visto che non è detto che siano umani? Chi ci dice che riusciranno a decifrare i suoi quadri con gli stessi codici che usiamo noi? Ma soprattutto, che garanzie dà l’involucro sulla conservazione? Quanto dureranno quei dipinti, che sono materici e di colore spesso, arrotolati? Non si rischia che i futuri scopritori si troveranno delle tele grezze da cui il pigmento si è staccato completamente? Oppure, grazie alla mirabolante tecnologia che avranno allora, saranno in grado di leggere anche scritture che non conoscono e di restaurare dipinti di cui non sanno nemmeno come fossero fatti?
A quanto pare, però, ormai sul K2 non si può più depositare nulla, perché sembra che tutti gli esploratori che vi sono passati vi abbiano lasciato su qualcosa, quindi anche il povero K2 è ormai pieno ci cianfrusaglie.

sabato 30 gennaio 2010

Picasso e la medium

Non se ne sono sentite mai abbastanza per continuare a stupirsi. Mi è capitato di conoscere un collezionista piuttosto singolare. Da quel che ho capito, deve possedere dei dipinti di arte contemporanea notevoli: i pochi pezzi che ne ho potuto apprezzare, in una mostra, erano davvero strepitosi. Fin qui, nulla di strano. Tornando a casa, mi accompagna in auto per un tratto, insieme ad una amica artista. Ero curioso di sapere di più della sua collezione, ma lui, invece, preferisce parlarmi di una medium, sua amica da oltre vent’anni, a cui ultimamente stavano venendo in visita (spiritica s’intende) grandi nomi della storia dell’arte. Sotto la spinta dello spirito di questi grandi artisti, la medium si sarebbe messa a dipingere, realizzando dei quadri bellissimi, a detta di questo collezionista, che vorrebbe infatti farne una mostra. Naturalmente vengono a fare visita a questa medium solo gli animi più nobili, che le trasmettono dei pensieri bellissimi: mai una volta che si degni di apparire in sogno, che so, Saturnino Gatti, o Cagnaccio di San Pietro!
In questo caso, la visita più frequente era quella di Pablo Picasso. Per pura coincidenza, l’amico collezionista possedeva due disegni del maestro spagnolo, di cui uno trovato fortuitamente accartocciato in un libro acquistato senza sapere che potesse esserci questo disegno.
Naturale quindi che il nostro collezionista, a questo punto, desiderasse chiedere al maestro notizie di questo disegno, che per altro era per metà strappato, e di come fosse finito dentro quel libro. Lo spirito di Picasso, per mezzo della medium, le raccontò che aveva realizzato quell’opera grafica (guarda caso aveva una memoria precisa proprio di quel disegno!) in un momento in cui era innamorato di una giovane bellissima donna. il disegno lo aveva fatto per lei, ma lo aveva strappato in un momento di rabbia, perché si sentiva interiormente diviso: da una parte doveva andare via, che il suo lavoro lo chiamava, ma dall’altra era così preso da questa giovane da non riuscire a lasciarla dopo una bellissima notte d’amore.
Naturalmente credo alla buona fede di questo signore, e non ho dubbi che fosse sincero quando si professava convinto di queste cose. Non riesco però a fare a meno di pormi alcune domande. La prima, in che lingua parlasse Picasso: lo spirito parla tutte le lingue, mi risponde l’amica artista, che pure non credeva a questa storia (non a caso, durante il discorso, disse che anche lei, prima di lavorare, si concentrava molto prima di iniziare a dipingere, ma che poi le venivano fuori solo cose sue, non cose di altri!). Questo, però, mi suscita un’altra domanda: ma se parla tutte le lingue, e io non ho mai sentito parlare di persona Picasso, da cosa capisco che è davvero il maestro che mi sta parlando e non un altro spirito che si sta burlando di me? Una persona amica si può riconoscere dalla voce, ma se non appare in figura (e anche questa non sarebbe una garanzia) come posso essere certo dell’identità dell’ente che mi si manifesta?
E soprattutto: ma perché Picasso sarebbe andato a scegliere come predestinata proprio questa medium e non un’altra?
Avrei voluto sapere, poi, se concentrandosi sotto la guida di questi artisti importanti, la medium avesse dipinto quadri cubisti o secondo lo stile del pittore in visita. In questo caso, meno male che gli scultori non si scomodano a fare visita alla medium, perché se no sarebbe un vero problema, specialmente dal punto di vista logistico. Mi piacerebbe sapere, poi, cosa potrebbe succedere, ad esempio, il giorno che verrà a trovarla lo spirito di un qualsiasi body artista, magari di quelli duri e puri, e anziché dipingere comincerà a squartare le bestie per farne performance. Ma in quel caso, forse, non ci si stupirebbe più di tanto.


28 gennaio 2010