martedì 28 dicembre 2010

Ritratti di gruppo

Nei primi anni del liceo, mi ero fissato di voler dipingere un grande quadro di famiglia, cioè un’unica tela di grandi dimensioni in cui fosse riunita tutta la mia famiglia intorno a un tavolo. Non volevo ovviamente fare una foto di gruppo dipinta a olio, ma un’opera di montaggio di persone prese da foto singole e composte in modo da essere riunite intorno a un’unica tavola. Del resto, il compito non sarebbe stato poi tanto complicato, visto che la maggior parte delle foto di famiglia, di solito, si fanno in occasione delle feste, degli anniversari o in altre ricorrenze simili e che, di solito, sono quasi sempre foto di pranzi e di cene. Questo mi avrebbe senza dubbio facilitato, perché si sarebbe trattato di montare intorno ad un’unica tavola virtuale tutti i componenti, presi in momenti diversi e in varie occasioni. Volevo fare qualcosa che somigliasse alle Visite di Renato Guttuso, dove il pittore di Bagheria faceva confluire intorno a una stessa tavola personaggi di epoche diverse, faceva dialogare come commensali personaggi storici che fra loro non si sarebbero potuti mai incontrare, oppure Picasso insieme ad alcuni personaggi dei suoi quadri, come un torno, una demoiselle di Avignone e così via. In effetti, quel sistema mi avrebbe permesso di riunire in un’unica composizione un gruppo familiare che in un’unica foto di gruppo istantanea non avrei potuto raggruppare anche per ovvi motivi anagrafici. In questo modo, invece, potevano stare insieme viventi e defunti, come a mostrare metaforicamente la presenza costante anche di chi si è già congedato. Avevo anche pensato che, per rendere visibile questa cosa, avrei potuto dipingere a colori le persone che ho conosciuto, in bianco e nero quelle che, al momento del quadro, erano già mancate e quelle che non avevo mai conosciuto. Questo avrebbe significato una continuità di intenti e di frequentazioni.
A dire il vero, c’era un precedente, perché alle elementari la maestra aveva dato un giorno il compito di disegnare la propria famiglia, ed io avevo schierato tutti i miei parenti in una immaginaria foto di gruppo nell’ingresso della casa romana dei genitori di papà. C’erano tutti quelli che facevano parte, allora, del mio emisfero familiare: tutta la famiglia di papà, in sostanza, più nonna Adriana, la madre di mamma. E tutti abbastanza caratterizzati. I visi, ovviamente, erano tutti uguali, un ovale con gi occhi e una “u” a fare da bocca, ma il vestiario li connotava in modo tipico. Nonna Adriana, ad esempio, aveva un pesante paltò marrone e la borsetta in mano, ed era molto riconoscibile.
Non c’era suo marito, nonno Lidano, perché era venuto meno nel 1965. Questo, negli stessi anni delle elementari, mi aveva del resto creato qualche problema. La stessa maestra, infatti, aveva fatto anche un altro esercizio per far imparare ai bambini il proprio albero genealogico, in cui si chiedeva di disegnare la mamma, il papà e i rispettivi nonni. Mi veniva difficile, sinceramente, disegnare qualcosa che somigliasse alla faccia di una persona che non avevo conosciuto. “Disegnalo per come te lo ricordi”, era stata la risposta un po’ sbrigativa, a cui non ritenni opportuno rispondere facendo presente che non potevo avere ricordi che precedessero di almeno ventun anni la mia nascita. Avevo però visto una piccolissima foto in bianco e nero a figura intera di cui avevo in testa una immagine non molto definita, e feci ricorso a uno sforzo di memoria per fare qualcosa che potesse somigliargli. A dire il vero, quando molti anni dopo trovai altre sue fotografie, mi resi conto che era molto diverso dall’immagine mentale che me ne ero costruito: era alto e con un naso importante che in quella piccola foto col cappello calcato in testa e un ingombrante cappotto non avevo davvero indovinato. Lo avevo però disegnato in bianco e nero, un po’ per distinguere, nella mia mente, i parenti vivi da quelli defunti, e un po’ perché da una foto in bianco e nero mi veniva difficile cavare una foto a colori. Certo, nella sintesi del disegno infantile non sarebbe stato poi così difficile fare qualcosa di verosimile, ma avevo già il vizio che bisognasse raccontare la verità e soltanto la verità, per cui non avrei potuto dare a quel volto un colore se non sapevo che colore potesse avere, né colorargli i vestiti se poi il loro colore vero non era quello. In ogni caso, non sono mai stato capace di raccontare balle, o di inventarmi qualcosa che non esistesse davvero.
Non so dire se quell’idea di distinguere persone a colori e in bianco e nero venisse soltanto dal ciclo di tele guttusiano o se possa avere qualche aggancio anche in questa esperienza infantile: al liceo, quando progettavo questo grande telero, pensavo soltanto a Guttuso e non mi ricordavo minimamente di quella cosa infantile. pensavo anche che avrei poi potuto regalare il quadro a nonna Ada e nonno Alberto, che avevano una sala grande e lo avrebbero potuto appendere lì, e tutta la famiglia avrebbe potuto vederlo. Pensandoci adesso, però, credo che nonna Ada non avrebbe mai appeso in casa propria un quadro del genere!
Avevo persino pensato di fare sbucare mia cugina Maria Cristina da sotto il tavolo, perché avevo una fotografia scattata ai cinquant’anni di matrimonio dei genitori di papà in cui si nascondeva sotto al tovaglia. Nella stessa occasione, poi, c’era anche una foto di Marco piccolissimo in braccio a mio padre, e anche questo mi semplificava le cose: con una posizione sola potevo inserire due persone diverse. Erano entrambi piccolissimi, allora: sui quattro anni Cristina, un anno e qualche mese Marco.
Non lo feci mai: mi limitai a qualche schizzo a matita su carta da pacco di alcune persone singole, presi da fotografie naturalmente, ma con risultati non esaltanti. Ricordo con soddisfazione solo il ritratto della zia Silvia, zia paterna di papà, perché era un profilo con die tratti abbastanza marcati, quindi con un viso più semplice da caratterizzare. Poi, però, per pigrizia o per trascuratezza, non ne feci nulla.
D’altra parte, poi, nel tempo in cui io pensavo al da farsi, il numero delle persone da dipingere in bianco e nero stava progressivamente salendo e i miei cugini sono diventati grandi, e la cosa sarebbe diventata molto complicata: non sarei riuscito a tenere il passo dell’aggiornamento. Oltretutto, sarebbe stato imbarazzante se mi fossi dimenticato qualcuno, o perché avessi ritenuto opportuno non inserirlo o, più banalmente, perché non ne avessi una foto decente. È uno dei problemi della memorialistica: quello che si trova a non essere citato, o ad essere liquidato in poche battute, si incazza sempre un pochino!
Del resto, per i defunti potevo usare solo foto d’archivio, ma per i viventi, avrei dovuto usare solo foto recenti, per lo stesso principio per cui si deve dire soltanto la verità. Mi sembrava ridicolo, in fondo, comporre insieme persone vive ma desunte da foto di tempi diversi: avrebbe creato un certo disorientamento se mia madre fosse sembrata più vecchia di mia nonna, o se magari nonno appariva di mezza età e coetaneo dei suoi figli, e magari sue sorelle anziane, non avendone foto giovanili sotto mano! Avrei ottenuto quel disorientamento che si ha talvolta al cimitero su certe lapidi: in un primo momento viene da pensare che è ingiusto che una donna così giovane e bella sia morta così presto, poi si leggono le date e in realtà ci si accorge che è un vezzo narcisistico (postumo) di una attempata novantenne che vuole tramandare il ricordo di quand’era una fanciulla in fiore. Del resto, esistono anche casi illustri: Isabella d’Este, ho imparato all’università, nei ritratti non invecchia mai!
A dire il vero, però, in quegli anni di liceo mi sono anche reso conto che non avevo poi una gran predisposizione alla ritrattistica, e questo avrebbe creato un altro tipo di problema. Come si sarebbero potuto offendere gli assenti, ci sono anche le persone che al contrario possono sempre dirti che le hai fatte brutte, o che loro non sono così. Poi c’è chi non si riconosce, oppure i “perché mi hai messo vicino a lui? Io volevo stare vicino a lei, o a lui”: tutte domande di fronte alle quali gli argomenti del bel comporre non avrebbero nessuna tenuta.
Con questo, però, non ho rinunciato a fare qualche ritratto. Alle medie avevo fatto due ritratti dal vivo di nonna Ada e nonno Alberto. Nonno era un uomo pacifico e paziente, quindi stare seduto un’ora di fronte a un nipote rompipalle che voleva a tutti i costi fargli il ritratto; il ritratto di nonna era stato già più complicato, perché nonna era meno paziente e più spartana, e non amava le perdite di tempo. Ne furono entrambi soddisfatti comunque, anche se per nonna il massimo del complimento era stato un “Imparerà, imparerà!”. Le piaceva però che le avessi fatto il mento pizzuto, che è tipico, dice, delle persone intelligenti. Tuttavia, pur non essendo un ritratto mimetico, dei tratti caratterizzanti in effetti li avevo colti abbastanza bene (prima e unica volta in cui ci sono riuscito!), ma non ero soddisfattto perché ero convinto che il primo requisito della pittura fosse la mimesi, e quello aveva troppe ingenuità per sembrare un ritratto fotografico. Avrei capito molto tempo dopo che il bello del ritratto non era quello: allora, però, il modello di riferimento non era certo l’iperrealismo, ma quella versione sentimentale e vagamente psicologica della ritrattistica che era tipica dei ritrattisti di strada, di quelli che in mezz’ora “ti fanno i ritratto”. Ne possiedo uno anche io, fatto a dodici anni a Firenze da una pittrice vicino agli Uffizi; tutto sommato fatto abbastanza bene, o d auna delle poche ritrattiste di strada che sapessero disegnare!
Ad ogni modo, quei due ritratti, debitamente incorniciati, sono stati molti anni appesi nel salotto della casa di Roma, almeno finché è stata viva nonna. Negli anni successivamente, Gilda, che aveva continuato a vivere in quella casa, non aveva voluto riappenderli, perché le faceva impressione, diceva, la vivezza di caratterizzazione con cui erano state tracciate le fisionomie dei suoi genitori. Forse un qualche effetto quei ritratto lo avevano effettivamente avuto. Avevo tentato anche un doppio ritratto, unendo sulla stessa tela i due profili dei nonni in una tela, dei miei genitori su un’altra. In quel caso, però, per trarre delle silhouette nere adatte avevo dovuto fare appositamente delle foto dei profili. Avrei voluto fare tutta una serie, ma la costanza mi è mancata e soprattutto, a lungo andare, rischiava di diventare una cosa troppo monotona e ripetitiva.
C’era però una constatazione di ordine generale. Forse, pensandoci a posteriori, era una dichiarazione del fatto che già allora, prima che decidessi di limitarmi a fare i ritratti solo con le parole (o con la fotografia eventualmente), mi era più congeniale il ritratto singolo rispetto a quello di gruppo, il dettaglio invece del grande insieme, la microstoria, volendo, rispetto al grande racconto. O quando le dimensioni del racconto aumentano, in effetti, questo nasce non per fusione di una grande composizione, ma, come mi è stato insegnato, per somma di dettagli. Non so se sia la strada giusta, ma forse, più semplicemente, ciascuno fa quello che crede gli riesca meglio.

lunedì 13 dicembre 2010

Alan Bennet, Una vita come le altre

"In genere preferiamo che il film della nostra vita sia ambientanto in uno scenario fisso e che il cast sia per lo più stabile, specialmente quando invecchiamo; noi possiamo cambiare ruolo, livello, partner, ma è meglio se gli amici e i parenti (le comparse del nostro film) restano fissi nella loro posizione abituale. La mrote di un caro o di un amico o, evento quasi altrettanto increscioso, un divorzio, cambiano la scena; provocano un doloroso terremoto"

(Alan Bennet, Una vita come le altre, Adelphi 2010)