domenica 20 aprile 2008

Archeologia industriale. Garbagnate milanese (fra la stazione di Serenella e quella di Garbagnate centro)





Ho trovato una nuova fornace. Anzi, a dire la verità, ci sarò passato davanti non so quante volte, senza notare che sotto quel lungo comignolo che sbucava al di là dei binari della stazione vi fosse un edificio.
Fincheè un bel giorno mi sono deciso a perlustrare meglio la zona, specie dopo che mi fu segnalato che in quell'aria sarebbe potuta sorgere la nuova sede del liceo che avevo frequentato. Una volta scoperto il sottopassaggio ferroviario (che è sempre stato lì, soltanto che non me ne ero ancora mai accorto), mi sono addentrato, e finalmente ho scoperto questa nuova frontiera dell'archeologia industriale (o, meglio, dell'abbandono delle aree marginali), in cui mi addentro senza lasciarmi intimorire da un cartello di "sequestro preventivo" che incontro incollato male sopra una sbarra arrugginita e cadente. Mi ricodo però in quel momento che in quella zona c'era stato un centro sociale abusivo, che faceva persino delle proiezioni serali di film, ma che è stato sgomberato dopo un po'.
Quando arrivo per la prima volta in quest'area, sono quasi le sette di sera, alla fine di aprile, dopo giorni e giorni di pioggia. Con le luci basse del tramonto, questo rudere si presenta di una grandiosa bellezza: le luci radenti disegnano si vanno a insinuare fra mattone e mattone con u disegno quasi astratt, rimarcando il contrasto fra un interno molto buio e una luce bassa che investe completamente l'esterno.
La fornace è costituita da quattro corpi di fabbrica: uno grande centrale (la fabbrica vera e propria) e tre che lo circondano perimetralmente, aperti verso l'interno come se fosse una corte. Qua e là, per terra, degli oggetti metallici abbandonati di cui non comprendo bene la funzione; poi una carriola e un'altra macchina a cinghia tutta arrugginita, inutile e bellissima, quasi una scultura in mezzo a una adeguata installazione ambientale.
Poco distante, invece, una struttura metallica che possia su un telaio apparentemente debole, ma che crea una campata di grande spazio, quasi la navata di una cattedrale. In fondo, a pensarci bene, questi luoghi hanno il fascino romantico della rovina, sublime come l'architettura gotica mangiata dalla vegetazione tanto cara alla cultura anglosassone. Qui, se il Duomo di Milano fosse infestato dalle erbacce, o San Lorenzo, i milanesi ne avrebbero a male. Ma se sono relitti di trenta o quaranta anni fa, luoghi dismessi e abbandonati, di cui si ricordano solo i senza tetto che vi trovano ricovero, o i randagi che cercano un luogo appartato, allora ecco che fra i morti e sbeccati mattoni si insinua del verde, si ramificano piante che fanno anche in tempo a fortificare il fusto, a mettere radici e insinuarsi sempre più profondamente nella struttura: diventa quasi una appropriazione viscerale, un legame sugellato da un patto vitale. il mattone non può più fare a meno del rampicante, e il rampicante soffrirebbe ad essere diviso dal suo pilastro.
La presenza umana è del tutto assente, ma nel momento in cui ci si passa in visita, o in perlustrazione, ci si rende conto che questi sono luoghi "parlanti", interrogativi forse, certamente di una ruvida e brutale poesia: eppure, alle ultime luci della sera, in una incerta primavera, questo corpo di muratura sbeccata e ferita, nel suo immoto languore, sembra quasi cantare.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Thanks for writing this.