Caro Babbo Natale, anche quest'anno sono passate le feste e, come dice la sorella di papà, anche quest'anno ti sei diverito a sparpagliare i regali dei miei cuginetti sotto più alberi di Natale, così che diventi, come tutti gli anni, un Natale itinerante: non ci fai una bella figura, perchè le zie dicono sempre che sei smemorato e fai confusione, quindi lasci i regali in giro e dici loro, per favore, di rimediare al suo errore riferendo ai diretti interessati che tu i regali volevi portarli proprio a loro.
Insomma, sono non so quanti secoli che fai questo lavoro, e sono almeno vent'anni che ti dimentichi di lasciarmi i regali tutti in un posto e ne trovo qualcuno di qua e qualcuno di là...e fai un po' di attenzione!
Questo, però, non sarebbe un gran problema, anzi: è un'occasione per essere sicuri di avere visto tutti i parenti prima di tornare a Milano.
Per l'anno prossimo, però, ti chiedo un grosso favore: dì a zia Gilda di piantarla di regalarmi tutti gli anni un trousse con schiuma da barba e dopobarba perchè, se ancora non se ne fosse accorta, ormai sono anni che porto il pizzetto e protendo sempre più per tenermi la barba intera, e sono sei anni che faccio collezione di questi flaconi di schiuma, tutti uguali.
Ormai potrei mettere un banchetto: se poi mi metto in società con papà (che porta la barba dalla metà degli anni '90) e zio Aldo, potremmo pianificare la distribuzione della schiuma da barba per il nord o per il centro Italia, a seconda dei gusti.
Ringrazio che sia finita la stagione degli orologi, perchè si è capito, finalmente, che non dispongo di più di due polsi, quindi non saprei che farmene con sei orologi diversi. Così, allo stesso modo, per quanto di secondo nome faccia Pietro, non possiedo così tante chiavi da riempire tutti i portachiavi ricevuti negli ultimi anni: li sto incollando a una grata, in camera, come una collezione i ninnoli decorativi (e vanno bene anche così).
Hai ragione che la colpa è mia che da tanti anni ho perso la sana abitudine di scriverti la mia letterina, quindi tu non sai cosa portarmi e i tuoi consiglieri, evidentemente, hanno poca fantasia (o, se è un caldo invito, che la piantino: io 'sta babra non me la taglio!); però comincio a comunicarti fin da ora che la prossima volta che ricevo una schiuma da barba, un orologio o un portachiavi, per gettare dalla finestra le cose che impicciano non aspetterò capodanno!!!
sabato 27 dicembre 2008
sabato 1 novembre 2008
Ciao Roby
Più passano gli anni, più si hanno cose che si sono condivise con le persone che hanno fatto insieme questo percorso, o una parte di esso. Poi, a distanza, piace ricordare gli aneddoti, ripetersi per la centesima o duecentesima volta lo stesso episodio che fa sempre ridere tutte le volte che ci si ripensa. Succede, questo, quando molto si è considiviso, almeno per una stagione della propria esistenza, magari anche solo in contesti limitati.
Si guarda indietro, si fa la conta, e si tira un bilancio. Alcune persone si fermano bruscamente a quella determinata stagione, perchè non c'è un seguito del loro percorso: resta solo il ricordo per ripercorrere da un capo all'altro quel lasso di tempo che, a un certo punto, brutalmente è stato reciso. Non c'è un seguito da raccontare, aggiornamenti per fare il punto: resta solo, per il futuro, il lugubre conteggio degli anniversari, con un po' di rabbia, e la coscienza di una logica delle cose troppo grande per noi (o almeno per me) e che non si è (o che non sono) in grado di comprendere. E un nodo alla gola.
Ciao Roby....
domenica 19 ottobre 2008
nuovi interventi di arredo urbano aresini: Monumento alla Pace
lo scultore si chiama Giacinto Bosco, il monumento è stato inaugurato il 14 settembre 2008, nella ricorrenza dell'11 anniversario della morte di Ada Pomodoro, una ragazza che è morta in un incidente stradale, proprio su quella via, all'età di 14 anni, al suo secondo giorno di liceo.
Tuttavia non è un monumento ad Ada, ma alla pace, anche se in suo ricordo.
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osservatorio casalingo e non
sabato 20 settembre 2008
cartoline kitsch dalla Baviera: Kandinsky
questa volta il post della "cartolina kitsch" non è mio, ma cedo il posto a Baviera, mio compagno di viaggio quest'estate a Monaco (...e in Baviera!), che fa una cartolina su una possibile "fruizione kitsch" di Kandinsky. Anche se rientro nella categoria che qui è chiamata della "gente petulante", mi sono divertito, quindi la pubblico così com'è...aggiungendo qualche immagine di contorno (tutte di quadri monacensi!.
Lo zio Kand e il caleidoscopio
Avvertenza preliminare
Si astenga dalla lettura di queste righe chiunque non sia affascinato dalla magia del caleidoscopio.
Si astengano soprattutto tutti quelli che, affascinati dal caleidoscopio, abbiano provato almeno una volta nella vita a smontarne uno, per vedere come funziona.
Una mostra di Kandinsky in sei punti
1 – Scegliete bene con chi andare alla mostra.
Evitate la gente frettolosa, chi si accontenta di uno sguardo e poi via di corsa, chi ha “un impegno più avanti, nel pomeriggio”. Evitate la gente petulante, chi si sente in dovere di darvi informazioni non richieste, o chi vi potrebbe assillare con domande inopportune. Evitate i bambini. Se avete un figlio, lasciatelo dai nonni. Se temete le critiche altrui perché “è bene abituare i bambini fin da piccoli ad apprezzare i musei”, portatelo domani a vedere Botticelli: sicuramente verrà giudicato più istruttivo…
In breve: prendetevi qualche ora solo per voi.
2 – Sorridete spesso nel tragitto tra casa e la mostra.
E se non riuscite, obbligatevi: state andando a vedere Kandinsky!
3 – Qual è il vostro grado di preparazione?
Una volta entrati nella biglietteria, impiegati zelanti si preoccuperanno di redimere la vostra anima! Vi offriranno audioguide che partono da sole, libretti economici, piccoli pieghevoli gratuiti, per non parlare delle grandi scritte sulle pareti, non lontane dai quadri, che tenteranno di tediare la vostra anima bambina con una serie di informazioni, tracce biografiche, cronologie, letture critiche.
Ma voi siete più forti. Distogliete lo sguardo da tutto quel ciarpame: se proprio volete diventare esperti dell’arte di Kandinsky, potrete leggere tutto quello che volete a casa vostra, comodi comodi. D’altra parte, cosa sapete del buon Kand? Era russo, dipinse qualche paesaggio, poi in Germania ebbe a che fare con dei cavalieri azzurri, e infine, per qualche ragione, emigrò in Francia. Questo basta!
4 – Quella che la gente seria chiamerebbe fruizione artistica.
Potete iniziare subito a guardare i dipinti, oppure, se siete particolarmente curiosi, dare uno sguardo veloce a tutte le sale e poi ripartire dall’inizio o anche dal dipinto che più vi ha colpito. In realtà non c’è una regola precisa. Cercate solo di evitare i piccoli gruppi di spocchiosi che si trovano sempre in questo genere di mostre, e che, per fortuna, si riconoscono sempre al primo sguardo: se notate alcune persone che discutono dell’importanza di un quadro nell’evoluzione dell’arte guardandosi vicendevolmente negli occhi e senza mai girarsi verso il quadro di cui parlano, ecco, li avete riconosciuti. Tenetevi alla larga.
Come guardare un quadro dello zio Kand? Anche qui non c’è nessuna regola. Però, se anche voi amate a tal punto il caleidoscopio da poter passare ore a fissare incantati le sempre nuove immagini che vi si presentano, mi permetto di consigliarvi un metodo che proprio al caleidoscopio si ispira.
Osservate il quadro da una certa distanza, quattro-cinque passi vanno benissimo. Pian piano avvicinatevi, fermandovi ad ogni passo. Inizialmente cercate di non perdere mai la totalità del quadro, provando a riconoscere, ancora da lontano, delle forme familiari. E’ proprio a queste che dovete aggrapparvi: se non riuscite a riconoscere nulla, o meglio, se non riuscite a ritrovare nulla di voi stessi dentro al quadro, difficilmente riuscirete ad emozionarvi. Non chiedetevi se quello che vedete sia realmente quello che lo zio Kand voleva rappresentare: non ha nessuna importanza. Delle linee curve possono essere una corsa, una linea azzurra può essere il mare, una macchia rossa può essere un cuore. Adesso avvicinatevi a ciò che più vi attrae nel quadro, fissatelo; cercate di rapportarlo al vostro vissuto, chiedetevi che cosa vi ricorda, osservate le immagini che la vostra mente tenterà di sovrapporre al quadro.
Riconosciuto un elemento, non passate subito al quadro successivo. Prima avvicinatevi ancora, incollate il vostro naso alla tela (attenzione all’antifurto!), per osservare le pennellate che lo costituiscono; poi, allontanandovi pian piano, cercate di legare l’elemento con la totalità del quadro. Se necessario, inclinate la testa, prima verso una spalla, poi verso l’altra: sarebbe necessario staccare il quadro dalla parete, ma non fatelo se volete evitare guai. Se trovate qualche relazione tra il vostro elemento e qualche altro elemento, o l’insieme del quadro, avvicinatevi di nuovo; altrimenti, allontanatevi e, prima di passare oltre, guardate di nuovo la tela nella sua totalità.
Inutile dire che l’operazione sopra descritta può durare anche molti minuti: ecco perché non dovete portare con voi gente frettolosa…
5 – Concedetevi un altro giro.
Tranquilli, non vi fanno pagare un doppio biglietto. Prima di uscire dalla mostra, andate a rivedere i quadri che più vi hanno emozionato, osservateli di nuovo, cercate di imprimere nella vostra memoria i particolari per voi carichi di significato. Li potrete utilizzare ovunque.
6 – Fate una piccola sosta al bookshop del museo.Cataloghi, libri d’arte, calamite, segnalibri, piccole stampe costosissime: c’è di tutto e per tutte le tasche. Un libro d’arte con tante immagini vi permette di “spizzicare”*, cioè di concedervi un piccolo svago ogni giorno aprendo il libro a caso e immergendovi per qualche minuto nel primo dipinto che vedete. Ma se invece preferite regalare al vostro frigorifero una calamita con la riproduzione di un dipinto dello zio Kand, non solo non dovete vergognarvi, ma anzi, dovete sentirvi orgogliosi: se nessuno comprasse più calamite, tutti i musei dovrebbero chiudere per deficit eccessivo. Con buona pace dei quattro spocchiosi di cui sopra.
Una considerazione finale
Sì, è vero, potete obiettare che le immagini viste attraverso i vetri di un caleidoscopio non c’entrano nulla con i quadri di Kandinsky. Potete obiettare che nel primo caso domina la simmetria e, in definitiva, la tecnica, nel secondo caso la fantasia e la libertà umana. Ma se fate questa obiezione, entrate nella categoria delle persone escluse da queste righe, perché state cercando di smontare il caleidoscopio.
*sì, è proprio lo “spizzicare” descritto da Pennac in “Come un romanzo”, applicato ovviamente ad un’immagine che è la copia fotografica di un’opera d’arte e non l’opera d’arte in sé, mentre Pennac parlava di romanzi che, pur essendo copie stampate, rimangono comunque opere d’arte…basta così, sembra quasi un discorso serio.
Lo zio Kand e il caleidoscopio
Avvertenza preliminare
Si astenga dalla lettura di queste righe chiunque non sia affascinato dalla magia del caleidoscopio.
Si astengano soprattutto tutti quelli che, affascinati dal caleidoscopio, abbiano provato almeno una volta nella vita a smontarne uno, per vedere come funziona.
Una mostra di Kandinsky in sei punti
1 – Scegliete bene con chi andare alla mostra.
Evitate la gente frettolosa, chi si accontenta di uno sguardo e poi via di corsa, chi ha “un impegno più avanti, nel pomeriggio”. Evitate la gente petulante, chi si sente in dovere di darvi informazioni non richieste, o chi vi potrebbe assillare con domande inopportune. Evitate i bambini. Se avete un figlio, lasciatelo dai nonni. Se temete le critiche altrui perché “è bene abituare i bambini fin da piccoli ad apprezzare i musei”, portatelo domani a vedere Botticelli: sicuramente verrà giudicato più istruttivo…
In breve: prendetevi qualche ora solo per voi.
2 – Sorridete spesso nel tragitto tra casa e la mostra.
E se non riuscite, obbligatevi: state andando a vedere Kandinsky!
3 – Qual è il vostro grado di preparazione?
Una volta entrati nella biglietteria, impiegati zelanti si preoccuperanno di redimere la vostra anima! Vi offriranno audioguide che partono da sole, libretti economici, piccoli pieghevoli gratuiti, per non parlare delle grandi scritte sulle pareti, non lontane dai quadri, che tenteranno di tediare la vostra anima bambina con una serie di informazioni, tracce biografiche, cronologie, letture critiche.
Ma voi siete più forti. Distogliete lo sguardo da tutto quel ciarpame: se proprio volete diventare esperti dell’arte di Kandinsky, potrete leggere tutto quello che volete a casa vostra, comodi comodi. D’altra parte, cosa sapete del buon Kand? Era russo, dipinse qualche paesaggio, poi in Germania ebbe a che fare con dei cavalieri azzurri, e infine, per qualche ragione, emigrò in Francia. Questo basta!
4 – Quella che la gente seria chiamerebbe fruizione artistica.
Potete iniziare subito a guardare i dipinti, oppure, se siete particolarmente curiosi, dare uno sguardo veloce a tutte le sale e poi ripartire dall’inizio o anche dal dipinto che più vi ha colpito. In realtà non c’è una regola precisa. Cercate solo di evitare i piccoli gruppi di spocchiosi che si trovano sempre in questo genere di mostre, e che, per fortuna, si riconoscono sempre al primo sguardo: se notate alcune persone che discutono dell’importanza di un quadro nell’evoluzione dell’arte guardandosi vicendevolmente negli occhi e senza mai girarsi verso il quadro di cui parlano, ecco, li avete riconosciuti. Tenetevi alla larga.
Come guardare un quadro dello zio Kand? Anche qui non c’è nessuna regola. Però, se anche voi amate a tal punto il caleidoscopio da poter passare ore a fissare incantati le sempre nuove immagini che vi si presentano, mi permetto di consigliarvi un metodo che proprio al caleidoscopio si ispira.
Osservate il quadro da una certa distanza, quattro-cinque passi vanno benissimo. Pian piano avvicinatevi, fermandovi ad ogni passo. Inizialmente cercate di non perdere mai la totalità del quadro, provando a riconoscere, ancora da lontano, delle forme familiari. E’ proprio a queste che dovete aggrapparvi: se non riuscite a riconoscere nulla, o meglio, se non riuscite a ritrovare nulla di voi stessi dentro al quadro, difficilmente riuscirete ad emozionarvi. Non chiedetevi se quello che vedete sia realmente quello che lo zio Kand voleva rappresentare: non ha nessuna importanza. Delle linee curve possono essere una corsa, una linea azzurra può essere il mare, una macchia rossa può essere un cuore. Adesso avvicinatevi a ciò che più vi attrae nel quadro, fissatelo; cercate di rapportarlo al vostro vissuto, chiedetevi che cosa vi ricorda, osservate le immagini che la vostra mente tenterà di sovrapporre al quadro.
Riconosciuto un elemento, non passate subito al quadro successivo. Prima avvicinatevi ancora, incollate il vostro naso alla tela (attenzione all’antifurto!), per osservare le pennellate che lo costituiscono; poi, allontanandovi pian piano, cercate di legare l’elemento con la totalità del quadro. Se necessario, inclinate la testa, prima verso una spalla, poi verso l’altra: sarebbe necessario staccare il quadro dalla parete, ma non fatelo se volete evitare guai. Se trovate qualche relazione tra il vostro elemento e qualche altro elemento, o l’insieme del quadro, avvicinatevi di nuovo; altrimenti, allontanatevi e, prima di passare oltre, guardate di nuovo la tela nella sua totalità.
Inutile dire che l’operazione sopra descritta può durare anche molti minuti: ecco perché non dovete portare con voi gente frettolosa…
5 – Concedetevi un altro giro.
Tranquilli, non vi fanno pagare un doppio biglietto. Prima di uscire dalla mostra, andate a rivedere i quadri che più vi hanno emozionato, osservateli di nuovo, cercate di imprimere nella vostra memoria i particolari per voi carichi di significato. Li potrete utilizzare ovunque.
6 – Fate una piccola sosta al bookshop del museo.Cataloghi, libri d’arte, calamite, segnalibri, piccole stampe costosissime: c’è di tutto e per tutte le tasche. Un libro d’arte con tante immagini vi permette di “spizzicare”*, cioè di concedervi un piccolo svago ogni giorno aprendo il libro a caso e immergendovi per qualche minuto nel primo dipinto che vedete. Ma se invece preferite regalare al vostro frigorifero una calamita con la riproduzione di un dipinto dello zio Kand, non solo non dovete vergognarvi, ma anzi, dovete sentirvi orgogliosi: se nessuno comprasse più calamite, tutti i musei dovrebbero chiudere per deficit eccessivo. Con buona pace dei quattro spocchiosi di cui sopra.
Una considerazione finale
Sì, è vero, potete obiettare che le immagini viste attraverso i vetri di un caleidoscopio non c’entrano nulla con i quadri di Kandinsky. Potete obiettare che nel primo caso domina la simmetria e, in definitiva, la tecnica, nel secondo caso la fantasia e la libertà umana. Ma se fate questa obiezione, entrate nella categoria delle persone escluse da queste righe, perché state cercando di smontare il caleidoscopio.
*sì, è proprio lo “spizzicare” descritto da Pennac in “Come un romanzo”, applicato ovviamente ad un’immagine che è la copia fotografica di un’opera d’arte e non l’opera d’arte in sé, mentre Pennac parlava di romanzi che, pur essendo copie stampate, rimangono comunque opere d’arte…basta così, sembra quasi un discorso serio.
ricognizioni territoriale: Castellazzo
ogni tanto mi dò ancora alle mie ricognizioni in zona, negli anditi dimenticati del nostro parco delle Groane. Adesso, poi, hanno fatto una bella pista ciclabile che, dalla rotonda che porta a Senago porta direttamente alla Villa Arconati di Castellazzo. Poi, da lì, si può andare a sinistra verso il cimitero, oppure a destra, come ho fatto io. In pratica si fa un percorso parallelo alla Varesina, solo che non te ne accorgi quasi, e si costeggia la recinzione in muratura del giardino della villa. Se poi ci si addentra un attimino, si trovano ancora degli angoli di bosco fra i quali si nasconde qualche rovina: ci sono dei piccoli edifici annessi al parco che sono stati quasi inghiottiti dalla vegetazione.
sabato 6 settembre 2008
cartoline kitsch dalla Baviera: i leoni
domenica 10 agosto 2008
Caterina Parisi Mehr, Poesie e altri scritti
INEUNTE VERE
Una folata magica
accende
fuochi gialli di forsizie
e mi trapassa.
Sento
sulla pelle
il turgore dei germogli.
finalmente, dopo molto tempo, e dopo una gestazione combattuta e molto difficoltosa, con alti e bassi, questo libro è finalmente uscito.
Si tratta della prima raccolta complessiva, curata da me insieme a Luigi Giurdanella, di tutte le poesie e gli scritti editi della poetessa Caterina Parisi Mehr (1924-2005). Caterina, oltre che una fine poetessa, è stata una persona cui ero davvero molto affezionato. Ora, tre anni dopo, è ancora un lume, un esempio per dirigere la mia vita.
Questo libro, adesso, è un omaggio al suo ricordo.
PS: chi fosse interessato a ricevere una copia di questo volume non deve fare altro che contattarmi, e provvederò a farglielo avere.
giovedì 7 agosto 2008
SPIGOLATURE CULINARIE E LINGUISTICHE
È proprio vero che l’unità d’Italia, anche a tavola, è ben lontana dall’essere compiuta. Questo, ovviamente, non solo per la varietà delle cucine locali, che costituiscono una vera e propria ricchezza culturale della tradizione, ma piuttosto perché non c’è accordo nemmeno sulla terminologia, mano a mano che si procede per varie regioni d’Italia. E non basta solo il caso delle “frappe”, che a Milano si chiamano “chiacchiere”, da altre parti sono “bugie” e che un’amica di famiglia, triestina, chiama “crostoli”: ci sono infatti anche casi in cui, di regione in regione, sotto lo stesso nome sono intesi prodotti diversi. A Roma, ad esempio, le bioches sono comunemente chiamate “cornetti”, mentre a Milano con quel termine si intendono soltanto i fagiolini.
Mia mamma fa sempre il caso delle “erbette”, termine con cui, a Milano, si intendono le bietole, che a Roma indicano i cosiddetti aromi come basilico, salvia e rosmarino, mentre a Latina con “erbette” si parla del prezzemolo. Si era infatti creata una situazione buffa quando la cugina di mamma, a Latina, leggendo una ricetta scritta evidentemente per un pubblico del nord, non riusciva a capire perché dovesse cucinarsi un chilo di prezzemolo, oltretutto dannoso alla salute: peccato che le “erbette” della ricetta non fossero prezzemolo ma, appunto, bietole.
Ma ci sono anche casi di nomi che si sdoppiano. In Lombardia, dal fornaio, si parla indistintamente di “michette”, mentre nel Lazio si distingue fra “bignè” (la michetta vuota) e “rosetta” (la michetta piena). Quando la mia mamma, giovane sposa, da Latina venne a vivere nell’interlad di Milano, le capitò che il fornaio le precisasse di non essere una pasticceria, quindi di non poterle servire dei “bignè”!
Cambiando continente, invece, il cugino di papà, Maurizio, che oggi vive in Brasile, con l’esperienza dell’italiano all’estero si è reso conto di quanto siano diverse non solo le abitudini alimentari, ma anche la percezione che si ha del gusto e dell’uso degli alimenti. Non è solo il fatto che non ci sia, in quel paese, quel sacro rispetto nei confronti della pastasciutta che è componente della nostra cucina, ma per esempio il rosmarino, là, viene usato come erba medicinale. Per questo è del tutto fuori dalla percezione il fatto che lo si possa usare in cucina: un pollo al rosmarino, dice Maurizio, per quanto tu possa raccontargli e convincergli che è buono, a loro farà comunque pensare a quello che per noi potrebbe essere un pollo “all’aspirina”!
Dalla moglie di Maurizio, che invece è brasiliana, abbiamo appreso però anche degli usi erboristici che non avremmo mai immaginato, come un infuso che, a raccontare il procedimento di preparazione, potrebbe sembrarci un po’ raccapricciante. Si fa caramellare un cucchiaio di zucchero in una pentola a fuoco basso, girando continuamente per non annerire e far diventare amaro il caramello, con una scorza di arancio (o limone) e uno o due spicchi di aglio.. una volta caramellato lo zucchero si mette un bicchiere d’acqua e si fa bollire. Dopodiché si tolgono la scorza e l’aglio, si filtra e si beve. Come per tutte le tisane, se la si beve calda bisogna stare attenti a non prendere freddo, perché l’infuso ti fa sudare molto.
Non ho mai provato, ma ricordo che la badante di mia nonna Adriana, Aminta, una ragazza dell’Equador, ci aveva suggerito, per far passare il mal di gola, una soluzione naturale di sicura efficacia: prendere una cipolla cruda, sminuzzarla fina e poi mangiarla mischiata con molto miele. Brucia da morire, in gola, la cipolla cruda col miele, ma, per esperienza, posso garantire che è effettivamente di sicuro effetto!
Mia mamma fa sempre il caso delle “erbette”, termine con cui, a Milano, si intendono le bietole, che a Roma indicano i cosiddetti aromi come basilico, salvia e rosmarino, mentre a Latina con “erbette” si parla del prezzemolo. Si era infatti creata una situazione buffa quando la cugina di mamma, a Latina, leggendo una ricetta scritta evidentemente per un pubblico del nord, non riusciva a capire perché dovesse cucinarsi un chilo di prezzemolo, oltretutto dannoso alla salute: peccato che le “erbette” della ricetta non fossero prezzemolo ma, appunto, bietole.
Ma ci sono anche casi di nomi che si sdoppiano. In Lombardia, dal fornaio, si parla indistintamente di “michette”, mentre nel Lazio si distingue fra “bignè” (la michetta vuota) e “rosetta” (la michetta piena). Quando la mia mamma, giovane sposa, da Latina venne a vivere nell’interlad di Milano, le capitò che il fornaio le precisasse di non essere una pasticceria, quindi di non poterle servire dei “bignè”!
Cambiando continente, invece, il cugino di papà, Maurizio, che oggi vive in Brasile, con l’esperienza dell’italiano all’estero si è reso conto di quanto siano diverse non solo le abitudini alimentari, ma anche la percezione che si ha del gusto e dell’uso degli alimenti. Non è solo il fatto che non ci sia, in quel paese, quel sacro rispetto nei confronti della pastasciutta che è componente della nostra cucina, ma per esempio il rosmarino, là, viene usato come erba medicinale. Per questo è del tutto fuori dalla percezione il fatto che lo si possa usare in cucina: un pollo al rosmarino, dice Maurizio, per quanto tu possa raccontargli e convincergli che è buono, a loro farà comunque pensare a quello che per noi potrebbe essere un pollo “all’aspirina”!
Dalla moglie di Maurizio, che invece è brasiliana, abbiamo appreso però anche degli usi erboristici che non avremmo mai immaginato, come un infuso che, a raccontare il procedimento di preparazione, potrebbe sembrarci un po’ raccapricciante. Si fa caramellare un cucchiaio di zucchero in una pentola a fuoco basso, girando continuamente per non annerire e far diventare amaro il caramello, con una scorza di arancio (o limone) e uno o due spicchi di aglio.. una volta caramellato lo zucchero si mette un bicchiere d’acqua e si fa bollire. Dopodiché si tolgono la scorza e l’aglio, si filtra e si beve. Come per tutte le tisane, se la si beve calda bisogna stare attenti a non prendere freddo, perché l’infuso ti fa sudare molto.
Non ho mai provato, ma ricordo che la badante di mia nonna Adriana, Aminta, una ragazza dell’Equador, ci aveva suggerito, per far passare il mal di gola, una soluzione naturale di sicura efficacia: prendere una cipolla cruda, sminuzzarla fina e poi mangiarla mischiata con molto miele. Brucia da morire, in gola, la cipolla cruda col miele, ma, per esperienza, posso garantire che è effettivamente di sicuro effetto!
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martedì 22 luglio 2008
martedì 8 luglio 2008
Falsi i teschi di Indiana Jones
(ANSA) - ROMA, 8 LUG - I teschi di cristallo di presunta origine azteca o maya tornati alla ribalta con l'ultimo film di Indiana Jones sono dei falsi.E' un falso anche quello del museo di Quai Branly a Parigi, esposto al pubblico in concomitanza con l'uscita del film. Lo afferma uno studio pubblicato domani sul Journal of Archaelogical Science, per i cui autori 'non sono pre-colombiani ma devono essere considerati delle manifatture relativamente recenti e probabilmente risalgono al XIX secolo'.
si falsifica davvero tutto però!
si falsifica davvero tutto però!
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varie ed eventuali
venerdì 4 luglio 2008
Amarcord (vari anni)
mi piace ripescare qualche vecchia foto a caso Mi rendo conto che ne dovrei scansire molte, ma mi accorgo anche che di vita ne ho una sola e che lavori ciclopici come questi al momento non riesco a farne. Posso però prendere delle cose a campione, partendo da lontano. Questa, ad esempio, è una delle mie foto più antiche. Reca la data del 14 febbraio del 1984 (cioè dieci giorni dopo la mia nascita):
oppure mi diverte sempre molto una serie di foto fatte da un fotografo di Cologno Monzese, dove abbiamo abitato fino al 1987. Mi sono ricordato ora che in alcune diq queste compariamo io e il mio migliore amico di allora, Andrea. Saranno quindici anni, se non di più, che non ne ho notizie. Ogni tanto mi domando come sia oggi, che cosa faccia e se, per quello che siamo ora, saremmo ancora amici come da bambini. Mi ricordo una bella vacanza a Finale Ligure (e anche qui ho in mente un anno preciso: 1989, perchè era appena nato il suo fratellino, Pietro...che ora è maggiorenne!). Qui sembra un bambolotto un po' tonto, ma è anche comprensibile: io, che paio quasi scanzonato, qui ho due anni...lui uno e qualcosa. Però, viste in sequenza, le trovo ancora molto divertenti!
e poi un'altra, senza fotografo, qualche tempo più tardi. Quando ci siamo persi di vista per la prima volta avevamo più o meno così. Andrea è una figura relegata alla primissima infanzia, la prima figura che ricordi davvero volentieri e con affetto. Non ne so davvero più nulla, non so nemmeno se sarei in grado di ritrovarlo. Però è un ricordo che mi fa ancora piacere coltivare.
questa foto mi diverte molto ad esempio: è il mio primo giorno di prima elementare. La data è certa, perchè ricordo che ci avevano fatti sedere ognuno al proprio banco, ciascuno con i propri genitori. Era un giorno memorabile: persino papà ha preso un giorno di ferie per essere presente (e infatti la foto è sua: una diapositiva da cui ho ritagliato a mia volta un piccolo dettaglio). Poi c'erano mamma, ovviamente, e nonna Adriana (figurati, il suo unico nipote, non poteva mancare: è stato il solo momento nodale della mia vita cui ha potuto partecipare di persona). Mamma racconta ancora che quel giorno la maestra aveva detto, per incoraggiare i miei compagni più timidi, che non dovevamo avere paura, perchè in fondo la maestra era un po' come una nostra seconda mamma. Per ragioni anagrafiche, sarebbe potuta essere mia nonna, o la sorella giovane di mia nonna(ed era pure un po' arcigna), ma non importa. Importa invece, racconta sempre mamma, che molto candidamente le risposi "Di mamma ce ne è una: basta e avanza!"...si commenta da sola direi!
di tanto in tanto riguardo queste foto, conto il tempo che passa (non è molto, va bene, ma è passato lo stesso). Mi fanno sorridere, ma mi viene anche una certa malinconia, forse anche nostalgia: non so se siano rimpianti, ma certo so che quel mondo, anche se forse non era il migliore che si potesse desiderare per il bene dell'umanità, di sicuro non esiste più; e so anche che il cerchio perfettamente chiuso delle certezze di quegli anni si è infranto molto presto, e che alcune persone, oggi, sono relegate, per ragioni di anagrafe, alla memoria di quel tempo: il tempo insieme di riduce a passare avanti indietro i ricordi appannati di quegli anni, troppo lontani adesso...e troppo pochi...
oppure mi diverte sempre molto una serie di foto fatte da un fotografo di Cologno Monzese, dove abbiamo abitato fino al 1987. Mi sono ricordato ora che in alcune diq queste compariamo io e il mio migliore amico di allora, Andrea. Saranno quindici anni, se non di più, che non ne ho notizie. Ogni tanto mi domando come sia oggi, che cosa faccia e se, per quello che siamo ora, saremmo ancora amici come da bambini. Mi ricordo una bella vacanza a Finale Ligure (e anche qui ho in mente un anno preciso: 1989, perchè era appena nato il suo fratellino, Pietro...che ora è maggiorenne!). Qui sembra un bambolotto un po' tonto, ma è anche comprensibile: io, che paio quasi scanzonato, qui ho due anni...lui uno e qualcosa. Però, viste in sequenza, le trovo ancora molto divertenti!
e poi un'altra, senza fotografo, qualche tempo più tardi. Quando ci siamo persi di vista per la prima volta avevamo più o meno così. Andrea è una figura relegata alla primissima infanzia, la prima figura che ricordi davvero volentieri e con affetto. Non ne so davvero più nulla, non so nemmeno se sarei in grado di ritrovarlo. Però è un ricordo che mi fa ancora piacere coltivare.
questa foto mi diverte molto ad esempio: è il mio primo giorno di prima elementare. La data è certa, perchè ricordo che ci avevano fatti sedere ognuno al proprio banco, ciascuno con i propri genitori. Era un giorno memorabile: persino papà ha preso un giorno di ferie per essere presente (e infatti la foto è sua: una diapositiva da cui ho ritagliato a mia volta un piccolo dettaglio). Poi c'erano mamma, ovviamente, e nonna Adriana (figurati, il suo unico nipote, non poteva mancare: è stato il solo momento nodale della mia vita cui ha potuto partecipare di persona). Mamma racconta ancora che quel giorno la maestra aveva detto, per incoraggiare i miei compagni più timidi, che non dovevamo avere paura, perchè in fondo la maestra era un po' come una nostra seconda mamma. Per ragioni anagrafiche, sarebbe potuta essere mia nonna, o la sorella giovane di mia nonna(ed era pure un po' arcigna), ma non importa. Importa invece, racconta sempre mamma, che molto candidamente le risposi "Di mamma ce ne è una: basta e avanza!"...si commenta da sola direi!
di tanto in tanto riguardo queste foto, conto il tempo che passa (non è molto, va bene, ma è passato lo stesso). Mi fanno sorridere, ma mi viene anche una certa malinconia, forse anche nostalgia: non so se siano rimpianti, ma certo so che quel mondo, anche se forse non era il migliore che si potesse desiderare per il bene dell'umanità, di sicuro non esiste più; e so anche che il cerchio perfettamente chiuso delle certezze di quegli anni si è infranto molto presto, e che alcune persone, oggi, sono relegate, per ragioni di anagrafe, alla memoria di quel tempo: il tempo insieme di riduce a passare avanti indietro i ricordi appannati di quegli anni, troppo lontani adesso...e troppo pochi...
martedì 1 luglio 2008
Foto di gruppo Saibene
Ebbene, adesso il lavoro Saibene, con tutti i suoi alti e bassi, le sue trasferte, nessi e connessi è davvero concluso. Il catalogo è stato pubblicato, a breve dovrei persino averne alcune copie da ritirare. Chiudo questa vicenda pubblicando un fotomontaggio molto simpatico che ha fatto Antonio e che abbiamo regalato ad Agosti per ricordare il lavoro. Doveva essere una compassata foto di gruppo. Poi, dato che le foto in posa erano venute brutte (dice) ha avuto questa idea, prendendo una foto "scappata per sbaglio", ha inserito alcuni dei dipinti della collezione Saibene: ciascuno tiene in mano uno dei dipinti che ha schedato per questo lavoro. Io, ad esempio, ho in mano una delle mie tavolette abruzzesi.
In ordine, da sinistra a destra, siamo: io, Sandrino, Martina, Matteo, Benedetta, Adam, Antonio, Federica e Davide. Lo squadrone, al completo, era questo...
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sabato 21 giugno 2008
Cercando Gualtieri di San Lazzaro (scoperte recenti)
per riassumere gli eventi recenti, faccio prima a ripubblicare una lettera recente a un professore della mia universià, in cui è raccontato tutto in modo ordinato. Posso solo aggiungere due note per spiegare la fotografia a lato, in quanto il signor Nicolas, di cui si parla in questa lettera, mi ha fatto cortese omaggio della sedia che è pubblicata sulla copertina di questo romanzo.
Gentile professor Negri,
il professor Rusconi mi ha detto di averla già informata della proposta che il signor Nicolas Rotskowski e io avevamo in mente di fare al dipartimento e, in particolare, ad APICE.
Devo però fare una premessa. Il signor Rostkowski è figlio della scultrice Maria Papa, moglie e vedova di Gualtieri di San Lazzaro (al secolo Giuseppe Papa, 1904-1974), editore, scrittore, e critico d'arte, nonchè fondatore delle edizioni d'arte ""XXeme Siécle" e dell'omonima rivista, che usciva in monografie di lusso a cadenza semestrale, con litografie originali di artisti contemporanei (un po' sulla falsariga del Cavaliere Azzurro, e non per nulla il primo numero, nel 1938, si pare con un articolo e una litografia di Kandinskij). Per mio conto, posso aggiungere che San Lazzaro era fratello della mia nonna materna, Adriana Papa, per cui posso dire di essere suo nipote. La scultrice Maria Papa è ormai in fin di vita, e il signor Nicolas desidera lasciare un segno a memoria della madre e del suo "beau pere", San Lazzaro appunto, in particolare rimettendo in circolazione la rivista "XXeme", difficilmente reperibile nelle biblioteche se non in qualche numero molto sparuto.
Lui, ovviamente, possiede tutta la collezione, ereditata dallo stesso San Lazzaro, e desidererebbe avviarne una digitalizzazione e messa in rete, al fine di rendere più facilmente disponibile il patrimonio di articoli, informazioni e quant'altro che in questa rivista è conservata come in uno scrigno. Mi sono permesso, per questo scopo, di fare il nome del centro APICE, suggerendogli che si sarebbe potuto costituire un fondo a nome di San Lazzaro, in cui far confluire la rivista, le altre pubblicazioni di XXeme Siécle (per fare un esempio, la prima monografia a stampa dedicata a Marino Marini, a firma di Fierens, viene pubblicata proprio da San Lazzaro nel 1933, così il De CHirico di Waldemar George e, in tempi più vicini, il primo catalogo ragionato di Marino Marini, a firma di Waldberg, Read e San Lazzaro appunto), e le carte che di San Lazzaro si sono conservate.
Torno giusto ora da Pietrasanta, da casa di Maria Papa, dove abbiamo trovato copioso materiale a questo scopo, fra cui numerose e inaspettate sorprese (che, a io modo di vedere, rendono davveo unico questo materiale) che comprende:
1) lettere di Lucio Fontana a San Lazzaro
2) lettere di Marino Marini a San Lazzaro
3) lettere di Mirò a San Lazzaro e Maria Papa
4) lettere di Cesare Zavattini a San Lazzaro
5) lettere di Vittorio De Sica a San Lazzaro
6) lettera di Max Bill a San Lazzaro
7) lettere di Capogrossi a San Lazzaro
8) lettere di Enrico Falqui a San Lazzaro
9) dattiloscritto di una conferenza di Vigorelli e Valsecchi su un libro di San Lazzaro
10) dattiloscritti relativi alla stesura del romanzo autobiografico epistolare inedito "Lettere mai spedite" (davvero di grande interesse, per quel che ne ho potuto leggere). La stesura è completa, e se ne conservano tre diverse versioni, dal manoscritto di partenza a varie versioni dattiloscritte con correzioni a penna, fino alla stesura definitiva. In ogni caso, si tratta di un inedito assoluto, di cui si ignorava del tutto l'esistenza.
11) rassegna stampa completa relativa a San Lazzaro, ai suoi romanzi (oltre che relativi a un premio Campiello, cui partecipava col romanzo "L'Aglio e la rosa", da cui venne escluso Moravia!)
cataloghi della Galleria XXeme Siécle e della Galleria del Naviglio (San Lazzaro era molto amico di Carlo Cardazzo, cui portò numerose mostre da Parigi).
12) dattiloscritti di elzeviri, racconti e altri scritti di San Lazzaro
questo, in grande sintesi, il contenuto del cartaceo che ho prelevato da Pietrasanta, cui va aggiunto un fondo librario comprendente narrativa e cataloghi d'arte italiani e francesi della seconda metà del Novecento (un centinaio di volumi circa).
Bisognerà poi aggiungere quanto il signor Nicolas possiede a Parigi ed è disposto a donare per la costituzione di questo fondo, ma che adesso non sono in grado di quantificare (ma che comprende sempre libri, manoscritti, dattiloscritti e corrispondenza), insieme ai 40 numeri circa che costituiscono XXeme Siécle.
Credo che sia un materiale molto interessante per il centro APICE: mancano studi su San Lazzaro, e questa sarebbe l'occasione per far conoscere nuovamente una figura che è stata ingiustamente dimenticata e che merita senza dubbio un ritorno di attenzione in quanto, insieme a Raffaele Carrieri, è fra quelle figure-cerniera degli scambi fra Italia e Francia (e, forse, anche più di Carrieri, che pure era suo amico, essendo San Lazzaro anche gallerista), e non solo scambi artistici, ma anche letterari. Non va infatti dimenticato che San Lazzaro è stato, dal 1946 fino alla morte, corrispondente da Parigi de "Il Tempo" e, più saltuariamente, del "Corriere della Sera" (molti suoi libri, infatti, nascono unendo questi articoli; se ne rese conto Orio Vergani, quando gli fece fare il primo libro, nel 1945, presso Garzanti, riunendo proprio questi elzeviri scritti durante la guerra).
Per l'archiviazione del materiale, ora presso di me e di cui intendo approntare un primo riordino, sono disponibile a farmi carico della inventariazione del fondo, essendo materiale che ho già cominciato a studiare.
Gentile professor Negri,
il professor Rusconi mi ha detto di averla già informata della proposta che il signor Nicolas Rotskowski e io avevamo in mente di fare al dipartimento e, in particolare, ad APICE.
Devo però fare una premessa. Il signor Rostkowski è figlio della scultrice Maria Papa, moglie e vedova di Gualtieri di San Lazzaro (al secolo Giuseppe Papa, 1904-1974), editore, scrittore, e critico d'arte, nonchè fondatore delle edizioni d'arte ""XXeme Siécle" e dell'omonima rivista, che usciva in monografie di lusso a cadenza semestrale, con litografie originali di artisti contemporanei (un po' sulla falsariga del Cavaliere Azzurro, e non per nulla il primo numero, nel 1938, si pare con un articolo e una litografia di Kandinskij). Per mio conto, posso aggiungere che San Lazzaro era fratello della mia nonna materna, Adriana Papa, per cui posso dire di essere suo nipote. La scultrice Maria Papa è ormai in fin di vita, e il signor Nicolas desidera lasciare un segno a memoria della madre e del suo "beau pere", San Lazzaro appunto, in particolare rimettendo in circolazione la rivista "XXeme", difficilmente reperibile nelle biblioteche se non in qualche numero molto sparuto.
Lui, ovviamente, possiede tutta la collezione, ereditata dallo stesso San Lazzaro, e desidererebbe avviarne una digitalizzazione e messa in rete, al fine di rendere più facilmente disponibile il patrimonio di articoli, informazioni e quant'altro che in questa rivista è conservata come in uno scrigno. Mi sono permesso, per questo scopo, di fare il nome del centro APICE, suggerendogli che si sarebbe potuto costituire un fondo a nome di San Lazzaro, in cui far confluire la rivista, le altre pubblicazioni di XXeme Siécle (per fare un esempio, la prima monografia a stampa dedicata a Marino Marini, a firma di Fierens, viene pubblicata proprio da San Lazzaro nel 1933, così il De CHirico di Waldemar George e, in tempi più vicini, il primo catalogo ragionato di Marino Marini, a firma di Waldberg, Read e San Lazzaro appunto), e le carte che di San Lazzaro si sono conservate.
Torno giusto ora da Pietrasanta, da casa di Maria Papa, dove abbiamo trovato copioso materiale a questo scopo, fra cui numerose e inaspettate sorprese (che, a io modo di vedere, rendono davveo unico questo materiale) che comprende:
1) lettere di Lucio Fontana a San Lazzaro
2) lettere di Marino Marini a San Lazzaro
3) lettere di Mirò a San Lazzaro e Maria Papa
4) lettere di Cesare Zavattini a San Lazzaro
5) lettere di Vittorio De Sica a San Lazzaro
6) lettera di Max Bill a San Lazzaro
7) lettere di Capogrossi a San Lazzaro
8) lettere di Enrico Falqui a San Lazzaro
9) dattiloscritto di una conferenza di Vigorelli e Valsecchi su un libro di San Lazzaro
10) dattiloscritti relativi alla stesura del romanzo autobiografico epistolare inedito "Lettere mai spedite" (davvero di grande interesse, per quel che ne ho potuto leggere). La stesura è completa, e se ne conservano tre diverse versioni, dal manoscritto di partenza a varie versioni dattiloscritte con correzioni a penna, fino alla stesura definitiva. In ogni caso, si tratta di un inedito assoluto, di cui si ignorava del tutto l'esistenza.
11) rassegna stampa completa relativa a San Lazzaro, ai suoi romanzi (oltre che relativi a un premio Campiello, cui partecipava col romanzo "L'Aglio e la rosa", da cui venne escluso Moravia!)
cataloghi della Galleria XXeme Siécle e della Galleria del Naviglio (San Lazzaro era molto amico di Carlo Cardazzo, cui portò numerose mostre da Parigi).
12) dattiloscritti di elzeviri, racconti e altri scritti di San Lazzaro
questo, in grande sintesi, il contenuto del cartaceo che ho prelevato da Pietrasanta, cui va aggiunto un fondo librario comprendente narrativa e cataloghi d'arte italiani e francesi della seconda metà del Novecento (un centinaio di volumi circa).
Bisognerà poi aggiungere quanto il signor Nicolas possiede a Parigi ed è disposto a donare per la costituzione di questo fondo, ma che adesso non sono in grado di quantificare (ma che comprende sempre libri, manoscritti, dattiloscritti e corrispondenza), insieme ai 40 numeri circa che costituiscono XXeme Siécle.
Credo che sia un materiale molto interessante per il centro APICE: mancano studi su San Lazzaro, e questa sarebbe l'occasione per far conoscere nuovamente una figura che è stata ingiustamente dimenticata e che merita senza dubbio un ritorno di attenzione in quanto, insieme a Raffaele Carrieri, è fra quelle figure-cerniera degli scambi fra Italia e Francia (e, forse, anche più di Carrieri, che pure era suo amico, essendo San Lazzaro anche gallerista), e non solo scambi artistici, ma anche letterari. Non va infatti dimenticato che San Lazzaro è stato, dal 1946 fino alla morte, corrispondente da Parigi de "Il Tempo" e, più saltuariamente, del "Corriere della Sera" (molti suoi libri, infatti, nascono unendo questi articoli; se ne rese conto Orio Vergani, quando gli fece fare il primo libro, nel 1945, presso Garzanti, riunendo proprio questi elzeviri scritti durante la guerra).
Per l'archiviazione del materiale, ora presso di me e di cui intendo approntare un primo riordino, sono disponibile a farmi carico della inventariazione del fondo, essendo materiale che ho già cominciato a studiare.
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domenica 8 giugno 2008
all'opera
se ci penso, quando guardo queste due foto, mi sembra che sia passata una vita da allora, mentre invece, in fondo, era solo cinque anni fa. Anzi, a fare due conti, ora, sono dieci anni da quanto ho iniziato il liceo (1998), cinque da quando mi sono immatricolato all'università (2003), mia cugina Maria Cristina, che mi ricordo da appena nata, fa già il primo anno di liceo e il mi cugino più piccolo, che mi sembra nato ieri l'altro, fa già la prima elementare. E pure io, in fondo, sono a poco da laurearmi: forse dovrei cominciare a convincermi che, in fondo, il mondo del liceale è finito da un po'. Per il momento non è che me ne sia proprio reso del tutto conto, ma pazienza.
domenica 1 giugno 2008
Angelo branduardi, La pulce d'acqua
E` la pulce d'acqua
che l'ombra ti rubò
e tu ora sei malato
e la mosca d'autunno
che hai schiacciato
non ti perdonerà.
Sull'acqua del ruscello
forse tu troppo ti sei chinato,
tu chiami la tua ombra,
ma lei non ritornerà.
E` la pulce d'acqua
che l'ombra ti rubò
e tu ora sei malato
e la serpe verde
che hai schiacciato
non ti perdonerà.
E allora devi a lungo cantare
per farti perdonare
e la pulce d'acqua che lo sa
l'ombra ti renderà.
che l'ombra ti rubò
e tu ora sei malato
e la mosca d'autunno
che hai schiacciato
non ti perdonerà.
Sull'acqua del ruscello
forse tu troppo ti sei chinato,
tu chiami la tua ombra,
ma lei non ritornerà.
E` la pulce d'acqua
che l'ombra ti rubò
e tu ora sei malato
e la serpe verde
che hai schiacciato
non ti perdonerà.
E allora devi a lungo cantare
per farti perdonare
e la pulce d'acqua che lo sa
l'ombra ti renderà.
giovedì 29 maggio 2008
Mia Martini, "Se mi sfiori"
Ogni tanto mi accorgo
di amarti ancora
come un peccato lo nascondo
con gli sguardi di sempre
ma nell'animo cascate
di solite malinconie e deserti
segreti
con il fuoco di te.
Se mi sfiori con la luna
cado spenta verso te
le tue braccia, azzurri cieli
per volare per capire
per soffrire per dimenticare...
Se mi sfiori come il vento
resto a vivere di te
poi mi porti via per mano
dove l'acqua sa di monte
neve sciolta. ..sa di noi.
Ogni tanto ti seguo
fra le gocce sui vetri
mentre ti fai piccolo ritorni chiaro
sopra il rosso di un faro
ma ritorna la mia mente
dove l'acqua sa di fonte
dove bello nasce il giorno
con il fuoco di te...
Se mi sfiori con la luna
cado spenta verso te
le tue braccia, azzurri cieli
per volare per capire
per soffrire per dimenticare...
Se mi sfiori come il vento
resto a vivere di te
poi mi porti via per mano
dove l' acqua sa di monte
neve sciolta... sa di noi
di amarti ancora
come un peccato lo nascondo
con gli sguardi di sempre
ma nell'animo cascate
di solite malinconie e deserti
segreti
con il fuoco di te.
Se mi sfiori con la luna
cado spenta verso te
le tue braccia, azzurri cieli
per volare per capire
per soffrire per dimenticare...
Se mi sfiori come il vento
resto a vivere di te
poi mi porti via per mano
dove l'acqua sa di monte
neve sciolta. ..sa di noi.
Ogni tanto ti seguo
fra le gocce sui vetri
mentre ti fai piccolo ritorni chiaro
sopra il rosso di un faro
ma ritorna la mia mente
dove l'acqua sa di fonte
dove bello nasce il giorno
con il fuoco di te...
Se mi sfiori con la luna
cado spenta verso te
le tue braccia, azzurri cieli
per volare per capire
per soffrire per dimenticare...
Se mi sfiori come il vento
resto a vivere di te
poi mi porti via per mano
dove l' acqua sa di monte
neve sciolta... sa di noi
lunedì 26 maggio 2008
orrori a Castello
è un po' che vorrei postare queste foto. Ora, voi ditemi con che coraggio si possono esporre nel cortile principale del Castello sforzesco simili orrori, brutti di fattura, ingombranti e, oltretutto, che costano un casino di trasporto e assicurazione, perchè il marmo non lo si porta lì su palmo di mano. Io non so, ma trovo grave che si dia tanto spazio a opere di così grossolana fattura e di basso profilo. Oltretutto, cosa ancora più grave, parliamo di uno spazio pubblico e di notevole visibilità. Non ci si rende nemmeno conto della non opportunità dell'allestimento: le tre sculture grandi sembrano posate a terra nel posto in cui avrebbero potuto recare meno impiccio (della serie "pesano troppo, lasciamole qui"!); ancora più assurdo è pensare invece di proporre dei mezzibusti in uno spazio esterno, che spariscono del completamente dentro uno spazio così grande: non basta metterle su un trespolo di legno, in modo da portarle ad altezza dello sguardo, per poter allestire in esterno anche sculture non piccole, ma nemmeno di dimensione sufficiente per reggere in uno spazio di quella estensione.
Ma il fatto più preoccupante, al di là del valore delle opere in sè (la cui sola cosa interessante, a mio parere, sono le acconciature e la foggia dei cappellini nei busti), è il fatto che dare uno spazio di importanza a una mostra importante significa anche avallare dei valori che queste opere veicolano. A me pare che questi bamboccioni di pietra (e sono anche marmi pregiati), siano solo in grado di veicolare il valore del niente, dell'azzeramento espressivo, di un prodotto artistico che richiede poco impegno per essere fruito (perchè c'è poco da fruire). Penso abbia ragione il mio amico Giancarlo, quando afferma che non è volgare l'opera d'arte erotica, ma è volgare l'opera fatta male!
Ma il fatto più preoccupante, al di là del valore delle opere in sè (la cui sola cosa interessante, a mio parere, sono le acconciature e la foggia dei cappellini nei busti), è il fatto che dare uno spazio di importanza a una mostra importante significa anche avallare dei valori che queste opere veicolano. A me pare che questi bamboccioni di pietra (e sono anche marmi pregiati), siano solo in grado di veicolare il valore del niente, dell'azzeramento espressivo, di un prodotto artistico che richiede poco impegno per essere fruito (perchè c'è poco da fruire). Penso abbia ragione il mio amico Giancarlo, quando afferma che non è volgare l'opera d'arte erotica, ma è volgare l'opera fatta male!
domenica 18 maggio 2008
da leggere assolutamente: è breve e divertente!
Alan Bennet, Un visita guidata [2005], Milano, Adelphi, 2008
La conferenza raccolta in questa piccola pubblicazione fu pronunciata da Alan Bennet nel periodo in cui fu trustee della National Gallery (nomina ricevuta nel 1993) e verte intorno al rapporto fra lo scrittore e la pittura e le esposizioni d’arte. Non si tratta di una conferenza cattedratica, ma di un racconto brillante, ricco di considerazioni ironiche e disincantate che parte, soprattutto, da un approccio tutt’altro che serio e sacrale con le immagini: un modo di guardare, e di restituire sulla pagina, ben diverso dal modo aulico ed estetizzante di Bernard Berenson, che è il bersaglio iniziale delle prime pagine.
Ne è indicativa, in particolare, una definizione dell’iconografia, di cui si riconosce l’utilità come “antidoto” alla critica estetica: «Scoprire […] che i dipinti potevano essere decodificati, che erano anche esperienze intellettuali e non solo estetiche mi confortò parecchio, perché li inserì in un contesto più familiare e anche più inglese – se non altro perché gran parte dell’iconografia, raccontandoci chi è chi e cosa è cosa, può essere vista come una forma più elevata del nostro passatempo nazionale: il pettegolezzo» (p. 18)
Questo approccio, insomma, permette un rapporto meno reverenziale nei confronti dei capolavori, senza il timore di sottolinearne il lato paradossale ai nostri occhi, come il lato “ridicolo”, nella percezione di noi moderni, dell’iconografia dei santi («Conoscere i santi e le loro storie è un […] punto di chiacchiere. E qui a volte trovo difficile mettere a tacere il mio senso del ridicolo, anche se col tempo ho capito che ridere di un quadro non vuol dire non apprezzarlo. Mi è sempre sembrato che i santi e i loro simboli abbiano un lato comico, e alcuni più di altri.» p. 19; un esempio per tutti: «Quasi tutti i quadri sul martirio di san Sebastiano oscillano tra la pornografia e il ridicolo» p. 20). Una esperienza di fruizione, pertanto, che consente di fantasticare intorno alla pittura, di leggerla secondo la propria immaginazione, fino a congetturare i “problemi relazionali” di cui l’iconografia dei santi sarebbe sintomatica: «Secondo me il fatto che i santi non possano mai separarsi dagli strumenti del loro martirio e se li debbano portare appresso in ogni quadro è il sintomo di una grave insicurezza relazionale.» (p. 21). Per esprimere questo fatto, però, di passaggio Bennet racconta un episodio della propria esperienza cinematografica che è utile a comprendere il concetto di segno di riconoscimento che è peculiare dell’iconografia, cioè l’introduzione di una serie di elementi, di segni che rendono subito riconoscibile la persona o la figura raffigurata. La conclusione, però, instaurando un parallelo diretto fra l’aneddoto raccontato e l’iconografia dei santi, è esilarante: «Mi vedo la madre di san Lorenzo che pianta una grana se il figliolo si fa vedere in giro senza il suo barbecue» (p. 22)
La conferenza raccolta in questa piccola pubblicazione fu pronunciata da Alan Bennet nel periodo in cui fu trustee della National Gallery (nomina ricevuta nel 1993) e verte intorno al rapporto fra lo scrittore e la pittura e le esposizioni d’arte. Non si tratta di una conferenza cattedratica, ma di un racconto brillante, ricco di considerazioni ironiche e disincantate che parte, soprattutto, da un approccio tutt’altro che serio e sacrale con le immagini: un modo di guardare, e di restituire sulla pagina, ben diverso dal modo aulico ed estetizzante di Bernard Berenson, che è il bersaglio iniziale delle prime pagine.
Ne è indicativa, in particolare, una definizione dell’iconografia, di cui si riconosce l’utilità come “antidoto” alla critica estetica: «Scoprire […] che i dipinti potevano essere decodificati, che erano anche esperienze intellettuali e non solo estetiche mi confortò parecchio, perché li inserì in un contesto più familiare e anche più inglese – se non altro perché gran parte dell’iconografia, raccontandoci chi è chi e cosa è cosa, può essere vista come una forma più elevata del nostro passatempo nazionale: il pettegolezzo» (p. 18)
Questo approccio, insomma, permette un rapporto meno reverenziale nei confronti dei capolavori, senza il timore di sottolinearne il lato paradossale ai nostri occhi, come il lato “ridicolo”, nella percezione di noi moderni, dell’iconografia dei santi («Conoscere i santi e le loro storie è un […] punto di chiacchiere. E qui a volte trovo difficile mettere a tacere il mio senso del ridicolo, anche se col tempo ho capito che ridere di un quadro non vuol dire non apprezzarlo. Mi è sempre sembrato che i santi e i loro simboli abbiano un lato comico, e alcuni più di altri.» p. 19; un esempio per tutti: «Quasi tutti i quadri sul martirio di san Sebastiano oscillano tra la pornografia e il ridicolo» p. 20). Una esperienza di fruizione, pertanto, che consente di fantasticare intorno alla pittura, di leggerla secondo la propria immaginazione, fino a congetturare i “problemi relazionali” di cui l’iconografia dei santi sarebbe sintomatica: «Secondo me il fatto che i santi non possano mai separarsi dagli strumenti del loro martirio e se li debbano portare appresso in ogni quadro è il sintomo di una grave insicurezza relazionale.» (p. 21). Per esprimere questo fatto, però, di passaggio Bennet racconta un episodio della propria esperienza cinematografica che è utile a comprendere il concetto di segno di riconoscimento che è peculiare dell’iconografia, cioè l’introduzione di una serie di elementi, di segni che rendono subito riconoscibile la persona o la figura raffigurata. La conclusione, però, instaurando un parallelo diretto fra l’aneddoto raccontato e l’iconografia dei santi, è esilarante: «Mi vedo la madre di san Lorenzo che pianta una grana se il figliolo si fa vedere in giro senza il suo barbecue» (p. 22)
domenica 11 maggio 2008
buon compleanno, mamma
Il post di oggi è dedicato a un’occasione particolare, in cui accavallano due feste: la festa della mamma e, in particolare, il compleanno della mia mamma (domani 12 maggio). Mi piace farle gli auguri mettendo una foto non proprio recentissima (né per lei né per me), ma sicuramente significativa, perché esprime un affetto che dura, per me, da sempre e che è, al contempo, un segno di gratitudine per una cura e una dedizione nei miei confronti di cui le riconosco molti meriti.
Certo, due feste concomitanti sono un po’ una fregatura, perché gli auguri te li fanno una volta sola, ma è anche vero che forse c’è un segno speciale, per noi almeno: è la festa di tutte le mamme, ma è soprattutto la festa della mia di mamma, sottolineata in modo distintivo!
Se sono diventato una persona curiosa nei confronti delle cose, appassionato con costanza e dedizione in quello che faccio, è anche perché ho avuto, ed ho, l’esempio di una persona che si è davvero dedicata senza risparmio a qualcosa in cui crede (nel suo caso è l’insegnamento, per me è altro, ma questo è poco importante).
Molte cose andrebbero aggiunte, ma forse sarà opportuno farlo altrove. Per il momento, conta di più, per me, fare gli auguri alla mia magnifica mamma che, se anche ora ha fra i capelli molti fili argentati, per me rimane sempre come in questa foto: tanti auguri, mamma.
Luca
lunedì 5 maggio 2008
BRESCELLO
Nel cinquantesimo anniversario del primo film della serie di don Camillo, il 2 giugno 2001, il comune di Brescello ha eretto in piazza Matteotti un monumento bronzeo dedicato ai due illustri protagonisti dei romanzi di Giovannino Guareschi e della fortunata serie di film dopo. A firmare il progetto lo scultore Andrea Zangani, che ha disposto due bronzi a grandezza naturale all’interno della piazza. Dal portone del municipio il bronzo di Peppone, levandosi il cappello, saluta i passanti, i quali, subito dopo, possono ricevere un saluto benedicente dal bronzo di don Camillo, di fronte alla chiesa di Santa Maria Nascente. Sono due sculture realiste (non iperrealiste, ma di quel realismo medio tipico di molta figurazione italiana), simili a certe sculture ambientali che si trovano nel nord Europa: persone che leggono il giornale sedute su una panchina di un parco, o intente in altre operazioni, che si mimetizzerebbero bene con la gente, se non fosse per il colore della patina di fusione a mostrare subito che non si tratta di persone vere. Per questo motivo, anche nel caso di Brescello non si tratta di due monumenti veri e propri, statuto che le due sculture avrebbero assunto automaticamente se fossero state poste sopra un piedistallo che le sopraelevasse rispetto al livello stradale. La scelta che è stata fatta, invece, è di ordine diverso, e coinvolge per intero lo spazio urbano della piazza come campo della rappresentazione, oltre a cercare un tono più accostante nei confronti dei turisti, che volentieri si fanno fotografare vicino a questi due bronzi come si fa con i pupazzi di Paperino o Topolino a Disneyland o, scendendo in ambito kitch, con il pagliaccio del Mc Donald. Al tempo stesso, pur non avendo una posizione dominante, questi due personaggi rubano la piazza, tanto che difficilmente ci si accorge della presenza, nello stesso contesto urbano, di un monumento vero, antico: un Ercole benefattore di Sansovino.
La cosa curiosa, però, è che si sia dedicato un monumento a due personaggi di finzione e che, nel raffigurarli, non si sia potuto fare a meno di esemplarli sul modello iconografico offerto dal cinema. Il monumento, qui, non è a Gino Cervi nei panni di Peppone o a Fernandel nei panni di don Camillo, perché il monumento non è dedicato all’attore, che viene raffigurato nei panni del ruolo interpretato che lo ha reso più celebre, ma è dedicato al personaggio in sé, soltanto che la fortuna cinematografica della serie rende impossibile una iconografia che non tenga conto di quel modello. Un caso diverso, insomma, da quando Hogart aveva ritratto un grande attore del suo tempo nei panni di un personaggio shakespeariano, o un’altra nota attrice come musa della tragedia: in quel caso, il soggetto rimaneva il ritrattato, e il titolo stesso esplicitava che il costume era un travestimento: la finzione, lì, era del tutto esplicita. Qui non si può dire altrettanto.
In un certo senso, è come se i due personaggi della finzione, narrativa e cinematografica, avessero assunto una vita completamente autonoma, quasi slegata dal loro creatore, Giovannino Guareschi, e che ha senza dubbio del tutto oscurato, ad esempio, i vari registi che ne hanno reso fattiva la restituzione nel film (Julien Duvivier, Carmine Gallone e, infine, anche Luigi Comencini).
È come se si fosse cristallizzato quel luogo nella facies che gli ha dato notorietà: il turista si aspetta di vedere la parrocchia di don Camillo, il municipio di Peppone, e che tutto l’ambiente risponda, per quanto possibile, a quello della finzione cinematografica. Quello che ci si aspetta, in fondo, è di ritrovare il set del film: non ci si reca a Brescello per visitare un luogo tramandatoci quasi intatto dal passato come potrebbero essere, ad esempio, Pienza o Sabbioneta, ma è come se si andasse a vedere un set del cinema, il luogo in cui si è girato un film, perché si vuole come avere l’impressione che, da un momento all’altro, il protagonista del film sbuchi fuori da dietro un angolo. Autorizza questa lettura alcuni cartelli turistici che segnalano i luoghi deputati in cui sono state girate determinate scene. E per quello che non si è potuto conservare in loco, è stato inaugurato, il 16 aprile del 1989, il "Museo Peppone e don Camillo", allestito nel Centro Culturale San Benedetto (sede della Casa del Popolo durante le riprese; su questo merita visitare il sito http://www.mondoguareschi.com). Insieme a numerose fotografie scattate durante la lavorazione dei film; i manifesti originali, le sale contengono numerosi cimeli del Don Camillo cinematografico: la moto di Peppone, il vestito di don Camillo, le biciclette usate dai due alla fine di Don Camillo e l’Onorevole Peppone (1955); non mancano poi persino le ricostruzioni della canonica di don Camillo e della cucina di Peppone. Di fronte al museo, poi, è stato collocato il carro armato Meium tank m26 usato sempre in Don Camillo e l’onorevole Peppone. Ma qui, che si tratti di finzione, è del tutto manifesto, perché un luogo del genere viene concepito per conservare cimeli, come reperti di un passato antico (un passato, in fondo, che costruisce un pezzo del nostro cinema). È nel tessuto urbano del centro cittadino che si verifica un fenomeno quasi surreale. Si a visitare un luogo vero, insomma, ma non per vedere un luogo storico, quanto un luogo della finzione: è questa, in qualche modo, a dare uno statuto di esistenza, e di richiamo, per un paese della bassa che diversamente entrerebbe con difficoltà nelle rotte del turismo.
giovedì 24 aprile 2008
TENTATO SUICIDIO IN VIA RIPAMONTI
TENTATO SUICIDIO IN VIA RIPAMONTI
C’era ancora una esperienza metropolitana che mi mancava, nelle mie lunghe rotte pendolari da nord ovest a Milano sud, prima di laurearmi.
Dopo metà della mia vita di studente universitario passata sul tram 24 (ci si fa una cultura a viaggiare in tram, in tutti i sensi!), non ci si stupisce più se ad un certo punto mamma ATM decide di scaricarti molto prima rispetto a quella che dovrebbe essere la tua fermata: una volta un guasto, una volta piove, una volta c’è qualcuno che parcheggia male o, meglio, ancora, qualcuno decide che vuole tentare di farsi rifare l’auto nuova direttamente dalla società dei trasporti. Non sono mancate occasioni in cui quella landa desolata in quel di via Noto era raggiungibile solo a piedi. Rispetto alla sede centrale, a due passi dal centro, per noi gli scioperi dei conducenti erano un’automatica sospensione delle lezioni. “Qualcuno di voi vola?” chiese una volta Rossana Sacchi ai suoi studenti “No? Allora la lezione è sospesa!”, era l’adagio consueto.
Insomma, questo solo per dire che, in un modo o nell’altro, non ci si stupisce più. Questa volta mi va anche bene, perché vengo scaricato, insieme a un nutrito numero di utenti, a pochi metri dalla mia fermata “Ripamonti-Noto”, e posso tranquillamente farmela a piedi. Mi è però più difficile capire le ragioni di questa interruzione, soprattutto trovando tre grossi mezzi dei vigili del fuoco che ostruiscono la strada e un piccolo capannello di persone che si è raccolto intorno, naso all’insù, a guardare non si sa cosa. Non si sentiva odore di bruciato, né c’erano idranti in giro, quindi non si poteva trattare d’incendio. “Sarà qualcuno che ha lasciato il gas acceso” è il primo pensiero.
Invece no, dopo un po’ si riesce a capire che c’è una ragazza, di età indefinita, che ha deciso di buttarsi dal balcone della sua abitazione all’ottavo piano.
Non avrei immaginato che suicidarsi, o, meglio, paventare un suicidio, potesse muovere tutto quel casino: bloccare il traffico in due sensi con due tram, impegnare tre mezzi della sicurezza, un’ambulanza, uno squadrone di pompieri, e attirare una folla di curiosi sempre più numerosa (me compreso naturalmente). Insomma, una operazione di salvataggio in pompa magna, che rischiava magari di non incontrare nemmeno la gratitudine della diretta interessata coinvolta, ma che certo aveva destato enorme curiosità.
Dal vociferare di sottofondo si percepiscono gli umori degli astanti, spettatori curiosi di uno spettacolo reale, ma che poteva essere anche trasmesso dalla televisione. È mezzogiorno, quindi, come di consueto, entro nel solito bar per il mio primo più mezza naturale (lo stesso da qualche anno. Ultimamente prendo anche il caffè: tanto è nel prezzo!). Fino a non molto fa era gestito da una signora pugliese molto gentile, a cui ora sono subentrati due ragazze cinesi (di cui una un po’ tonta), un altro cinese e una cameriera brasiliana. In questo ambiente poliedrico ambiente si misurano le reazioni, dalla cinese tonta che, fa capire, sostiene che si buttasse, quella lì, e non ci si pensasse più, alla ragazza brasiliana che fa invece notare che, se proprio proprio ci si vuole suicidare, meglio buttarsi sotto la metroplitana: offre molte più garanzie di riuscita, in fondo. In effetti, se davvero questa ragazza, attesa da tutti e non vista, si fosse voluta buttare davvero, ora che i pompieri gonfiavano un enorme materasso (che ha destato l’entusiasmo del cinese: mi ha persino chiamato a gran voce per venire a vedere, abbandonando le mie penne al sugo e tonno), salivano con la scala fino al piano e tutto, il tempo di buttarsi lo avrebbe tranquillamente avuto. All’apice della suspense, finalmente si sente un vetro rotto e i nostri eroi che entrano in azione…rompendo la finestra dell’appartamento sbagliato!
Non ho mai maledetto tanto l’inizio di una lezione, che mi ha impedito di finire di vedere uno spettacolo quasi esilarante. Se fossi stato nei pompieri, però, a quel punto, avrei almeno preteso che la gentile ragazza si fosse poi gentilmente gettata per provare l’ebbrezza del volo sul materasso ad aria: almeno non sarebbe stato gonfiato per nulla.
In effetti, però, non manca un aspetto mediatico interessante; è come se intorno a questo fatto, tutt’altro che eccezionale, si fosse condensato un interesse diffuso per la cronaca nera: è la soddisfazione di poter dire di esserci stati e di poter raccontare la propria versione dei fatti (quella che naturalmente i giornalisti non riporteranno mai fedelmente come noi che ci siamo stati!). Dall’altra, in effetti, la cameriera brasiliana aveva ragione: se voleva suicidarsi davvero, non si sarebbe dato luogo a tutta questa inutile montatura, che non ha fatto che distrarre dall’obiettivo finale.
Ma poi, in ultimo, mi domando e mi chiedo: ma come vivrà ora questa benedetta ragazza in un palazzo in cui verrà ricordata come la matta che ha cercato di buttarsi di sotto, che ha creato tutto questo trambusto, e per nulla per giunta? Forse voleva essere un modo plateale di uscire di scena, e, se ci fosse riuscita, le sarebbe andato anche bene: così, però, detto in termini molto prosaici, resta solo un gran sputtanamento. Come dire, tornando a termini aulici, non sempre la gloria (per quanto momentanea) giova a chi l’ha ricevuta…
C’era ancora una esperienza metropolitana che mi mancava, nelle mie lunghe rotte pendolari da nord ovest a Milano sud, prima di laurearmi.
Dopo metà della mia vita di studente universitario passata sul tram 24 (ci si fa una cultura a viaggiare in tram, in tutti i sensi!), non ci si stupisce più se ad un certo punto mamma ATM decide di scaricarti molto prima rispetto a quella che dovrebbe essere la tua fermata: una volta un guasto, una volta piove, una volta c’è qualcuno che parcheggia male o, meglio, ancora, qualcuno decide che vuole tentare di farsi rifare l’auto nuova direttamente dalla società dei trasporti. Non sono mancate occasioni in cui quella landa desolata in quel di via Noto era raggiungibile solo a piedi. Rispetto alla sede centrale, a due passi dal centro, per noi gli scioperi dei conducenti erano un’automatica sospensione delle lezioni. “Qualcuno di voi vola?” chiese una volta Rossana Sacchi ai suoi studenti “No? Allora la lezione è sospesa!”, era l’adagio consueto.
Insomma, questo solo per dire che, in un modo o nell’altro, non ci si stupisce più. Questa volta mi va anche bene, perché vengo scaricato, insieme a un nutrito numero di utenti, a pochi metri dalla mia fermata “Ripamonti-Noto”, e posso tranquillamente farmela a piedi. Mi è però più difficile capire le ragioni di questa interruzione, soprattutto trovando tre grossi mezzi dei vigili del fuoco che ostruiscono la strada e un piccolo capannello di persone che si è raccolto intorno, naso all’insù, a guardare non si sa cosa. Non si sentiva odore di bruciato, né c’erano idranti in giro, quindi non si poteva trattare d’incendio. “Sarà qualcuno che ha lasciato il gas acceso” è il primo pensiero.
Invece no, dopo un po’ si riesce a capire che c’è una ragazza, di età indefinita, che ha deciso di buttarsi dal balcone della sua abitazione all’ottavo piano.
Non avrei immaginato che suicidarsi, o, meglio, paventare un suicidio, potesse muovere tutto quel casino: bloccare il traffico in due sensi con due tram, impegnare tre mezzi della sicurezza, un’ambulanza, uno squadrone di pompieri, e attirare una folla di curiosi sempre più numerosa (me compreso naturalmente). Insomma, una operazione di salvataggio in pompa magna, che rischiava magari di non incontrare nemmeno la gratitudine della diretta interessata coinvolta, ma che certo aveva destato enorme curiosità.
Dal vociferare di sottofondo si percepiscono gli umori degli astanti, spettatori curiosi di uno spettacolo reale, ma che poteva essere anche trasmesso dalla televisione. È mezzogiorno, quindi, come di consueto, entro nel solito bar per il mio primo più mezza naturale (lo stesso da qualche anno. Ultimamente prendo anche il caffè: tanto è nel prezzo!). Fino a non molto fa era gestito da una signora pugliese molto gentile, a cui ora sono subentrati due ragazze cinesi (di cui una un po’ tonta), un altro cinese e una cameriera brasiliana. In questo ambiente poliedrico ambiente si misurano le reazioni, dalla cinese tonta che, fa capire, sostiene che si buttasse, quella lì, e non ci si pensasse più, alla ragazza brasiliana che fa invece notare che, se proprio proprio ci si vuole suicidare, meglio buttarsi sotto la metroplitana: offre molte più garanzie di riuscita, in fondo. In effetti, se davvero questa ragazza, attesa da tutti e non vista, si fosse voluta buttare davvero, ora che i pompieri gonfiavano un enorme materasso (che ha destato l’entusiasmo del cinese: mi ha persino chiamato a gran voce per venire a vedere, abbandonando le mie penne al sugo e tonno), salivano con la scala fino al piano e tutto, il tempo di buttarsi lo avrebbe tranquillamente avuto. All’apice della suspense, finalmente si sente un vetro rotto e i nostri eroi che entrano in azione…rompendo la finestra dell’appartamento sbagliato!
Non ho mai maledetto tanto l’inizio di una lezione, che mi ha impedito di finire di vedere uno spettacolo quasi esilarante. Se fossi stato nei pompieri, però, a quel punto, avrei almeno preteso che la gentile ragazza si fosse poi gentilmente gettata per provare l’ebbrezza del volo sul materasso ad aria: almeno non sarebbe stato gonfiato per nulla.
In effetti, però, non manca un aspetto mediatico interessante; è come se intorno a questo fatto, tutt’altro che eccezionale, si fosse condensato un interesse diffuso per la cronaca nera: è la soddisfazione di poter dire di esserci stati e di poter raccontare la propria versione dei fatti (quella che naturalmente i giornalisti non riporteranno mai fedelmente come noi che ci siamo stati!). Dall’altra, in effetti, la cameriera brasiliana aveva ragione: se voleva suicidarsi davvero, non si sarebbe dato luogo a tutta questa inutile montatura, che non ha fatto che distrarre dall’obiettivo finale.
Ma poi, in ultimo, mi domando e mi chiedo: ma come vivrà ora questa benedetta ragazza in un palazzo in cui verrà ricordata come la matta che ha cercato di buttarsi di sotto, che ha creato tutto questo trambusto, e per nulla per giunta? Forse voleva essere un modo plateale di uscire di scena, e, se ci fosse riuscita, le sarebbe andato anche bene: così, però, detto in termini molto prosaici, resta solo un gran sputtanamento. Come dire, tornando a termini aulici, non sempre la gloria (per quanto momentanea) giova a chi l’ha ricevuta…
domenica 20 aprile 2008
scultori della Permanente a Garbagnate (fino al 12 maggio)
questo post è stato spostato nel blog "Nati sotto Saturno", cui si può arrivare attraverso l'apposito link nella colonna di sinistra oppure copiando questo indirizzo:
http://natisottosaturno.blogspot.com
http://natisottosaturno.blogspot.com
Archeologia industriale. Garbagnate milanese (fra la stazione di Serenella e quella di Garbagnate centro)
Ho trovato una nuova fornace. Anzi, a dire la verità, ci sarò passato davanti non so quante volte, senza notare che sotto quel lungo comignolo che sbucava al di là dei binari della stazione vi fosse un edificio.
Fincheè un bel giorno mi sono deciso a perlustrare meglio la zona, specie dopo che mi fu segnalato che in quell'aria sarebbe potuta sorgere la nuova sede del liceo che avevo frequentato. Una volta scoperto il sottopassaggio ferroviario (che è sempre stato lì, soltanto che non me ne ero ancora mai accorto), mi sono addentrato, e finalmente ho scoperto questa nuova frontiera dell'archeologia industriale (o, meglio, dell'abbandono delle aree marginali), in cui mi addentro senza lasciarmi intimorire da un cartello di "sequestro preventivo" che incontro incollato male sopra una sbarra arrugginita e cadente. Mi ricodo però in quel momento che in quella zona c'era stato un centro sociale abusivo, che faceva persino delle proiezioni serali di film, ma che è stato sgomberato dopo un po'.
Quando arrivo per la prima volta in quest'area, sono quasi le sette di sera, alla fine di aprile, dopo giorni e giorni di pioggia. Con le luci basse del tramonto, questo rudere si presenta di una grandiosa bellezza: le luci radenti disegnano si vanno a insinuare fra mattone e mattone con u disegno quasi astratt, rimarcando il contrasto fra un interno molto buio e una luce bassa che investe completamente l'esterno.
La fornace è costituita da quattro corpi di fabbrica: uno grande centrale (la fabbrica vera e propria) e tre che lo circondano perimetralmente, aperti verso l'interno come se fosse una corte. Qua e là, per terra, degli oggetti metallici abbandonati di cui non comprendo bene la funzione; poi una carriola e un'altra macchina a cinghia tutta arrugginita, inutile e bellissima, quasi una scultura in mezzo a una adeguata installazione ambientale.
Poco distante, invece, una struttura metallica che possia su un telaio apparentemente debole, ma che crea una campata di grande spazio, quasi la navata di una cattedrale. In fondo, a pensarci bene, questi luoghi hanno il fascino romantico della rovina, sublime come l'architettura gotica mangiata dalla vegetazione tanto cara alla cultura anglosassone. Qui, se il Duomo di Milano fosse infestato dalle erbacce, o San Lorenzo, i milanesi ne avrebbero a male. Ma se sono relitti di trenta o quaranta anni fa, luoghi dismessi e abbandonati, di cui si ricordano solo i senza tetto che vi trovano ricovero, o i randagi che cercano un luogo appartato, allora ecco che fra i morti e sbeccati mattoni si insinua del verde, si ramificano piante che fanno anche in tempo a fortificare il fusto, a mettere radici e insinuarsi sempre più profondamente nella struttura: diventa quasi una appropriazione viscerale, un legame sugellato da un patto vitale. il mattone non può più fare a meno del rampicante, e il rampicante soffrirebbe ad essere diviso dal suo pilastro.
La presenza umana è del tutto assente, ma nel momento in cui ci si passa in visita, o in perlustrazione, ci si rende conto che questi sono luoghi "parlanti", interrogativi forse, certamente di una ruvida e brutale poesia: eppure, alle ultime luci della sera, in una incerta primavera, questo corpo di muratura sbeccata e ferita, nel suo immoto languore, sembra quasi cantare.
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