Ogni tanto mi accorgo
di amarti ancora
come un peccato lo nascondo
con gli sguardi di sempre
ma nell'animo cascate
di solite malinconie e deserti
segreti
con il fuoco di te.
Se mi sfiori con la luna
cado spenta verso te
le tue braccia, azzurri cieli
per volare per capire
per soffrire per dimenticare...
Se mi sfiori come il vento
resto a vivere di te
poi mi porti via per mano
dove l'acqua sa di monte
neve sciolta. ..sa di noi.
Ogni tanto ti seguo
fra le gocce sui vetri
mentre ti fai piccolo ritorni chiaro
sopra il rosso di un faro
ma ritorna la mia mente
dove l'acqua sa di fonte
dove bello nasce il giorno
con il fuoco di te...
Se mi sfiori con la luna
cado spenta verso te
le tue braccia, azzurri cieli
per volare per capire
per soffrire per dimenticare...
Se mi sfiori come il vento
resto a vivere di te
poi mi porti via per mano
dove l' acqua sa di monte
neve sciolta... sa di noi
giovedì 29 maggio 2008
lunedì 26 maggio 2008
orrori a Castello
è un po' che vorrei postare queste foto. Ora, voi ditemi con che coraggio si possono esporre nel cortile principale del Castello sforzesco simili orrori, brutti di fattura, ingombranti e, oltretutto, che costano un casino di trasporto e assicurazione, perchè il marmo non lo si porta lì su palmo di mano. Io non so, ma trovo grave che si dia tanto spazio a opere di così grossolana fattura e di basso profilo. Oltretutto, cosa ancora più grave, parliamo di uno spazio pubblico e di notevole visibilità. Non ci si rende nemmeno conto della non opportunità dell'allestimento: le tre sculture grandi sembrano posate a terra nel posto in cui avrebbero potuto recare meno impiccio (della serie "pesano troppo, lasciamole qui"!); ancora più assurdo è pensare invece di proporre dei mezzibusti in uno spazio esterno, che spariscono del completamente dentro uno spazio così grande: non basta metterle su un trespolo di legno, in modo da portarle ad altezza dello sguardo, per poter allestire in esterno anche sculture non piccole, ma nemmeno di dimensione sufficiente per reggere in uno spazio di quella estensione.
Ma il fatto più preoccupante, al di là del valore delle opere in sè (la cui sola cosa interessante, a mio parere, sono le acconciature e la foggia dei cappellini nei busti), è il fatto che dare uno spazio di importanza a una mostra importante significa anche avallare dei valori che queste opere veicolano. A me pare che questi bamboccioni di pietra (e sono anche marmi pregiati), siano solo in grado di veicolare il valore del niente, dell'azzeramento espressivo, di un prodotto artistico che richiede poco impegno per essere fruito (perchè c'è poco da fruire). Penso abbia ragione il mio amico Giancarlo, quando afferma che non è volgare l'opera d'arte erotica, ma è volgare l'opera fatta male!
Ma il fatto più preoccupante, al di là del valore delle opere in sè (la cui sola cosa interessante, a mio parere, sono le acconciature e la foggia dei cappellini nei busti), è il fatto che dare uno spazio di importanza a una mostra importante significa anche avallare dei valori che queste opere veicolano. A me pare che questi bamboccioni di pietra (e sono anche marmi pregiati), siano solo in grado di veicolare il valore del niente, dell'azzeramento espressivo, di un prodotto artistico che richiede poco impegno per essere fruito (perchè c'è poco da fruire). Penso abbia ragione il mio amico Giancarlo, quando afferma che non è volgare l'opera d'arte erotica, ma è volgare l'opera fatta male!
domenica 18 maggio 2008
da leggere assolutamente: è breve e divertente!
Alan Bennet, Un visita guidata [2005], Milano, Adelphi, 2008
La conferenza raccolta in questa piccola pubblicazione fu pronunciata da Alan Bennet nel periodo in cui fu trustee della National Gallery (nomina ricevuta nel 1993) e verte intorno al rapporto fra lo scrittore e la pittura e le esposizioni d’arte. Non si tratta di una conferenza cattedratica, ma di un racconto brillante, ricco di considerazioni ironiche e disincantate che parte, soprattutto, da un approccio tutt’altro che serio e sacrale con le immagini: un modo di guardare, e di restituire sulla pagina, ben diverso dal modo aulico ed estetizzante di Bernard Berenson, che è il bersaglio iniziale delle prime pagine.
Ne è indicativa, in particolare, una definizione dell’iconografia, di cui si riconosce l’utilità come “antidoto” alla critica estetica: «Scoprire […] che i dipinti potevano essere decodificati, che erano anche esperienze intellettuali e non solo estetiche mi confortò parecchio, perché li inserì in un contesto più familiare e anche più inglese – se non altro perché gran parte dell’iconografia, raccontandoci chi è chi e cosa è cosa, può essere vista come una forma più elevata del nostro passatempo nazionale: il pettegolezzo» (p. 18)
Questo approccio, insomma, permette un rapporto meno reverenziale nei confronti dei capolavori, senza il timore di sottolinearne il lato paradossale ai nostri occhi, come il lato “ridicolo”, nella percezione di noi moderni, dell’iconografia dei santi («Conoscere i santi e le loro storie è un […] punto di chiacchiere. E qui a volte trovo difficile mettere a tacere il mio senso del ridicolo, anche se col tempo ho capito che ridere di un quadro non vuol dire non apprezzarlo. Mi è sempre sembrato che i santi e i loro simboli abbiano un lato comico, e alcuni più di altri.» p. 19; un esempio per tutti: «Quasi tutti i quadri sul martirio di san Sebastiano oscillano tra la pornografia e il ridicolo» p. 20). Una esperienza di fruizione, pertanto, che consente di fantasticare intorno alla pittura, di leggerla secondo la propria immaginazione, fino a congetturare i “problemi relazionali” di cui l’iconografia dei santi sarebbe sintomatica: «Secondo me il fatto che i santi non possano mai separarsi dagli strumenti del loro martirio e se li debbano portare appresso in ogni quadro è il sintomo di una grave insicurezza relazionale.» (p. 21). Per esprimere questo fatto, però, di passaggio Bennet racconta un episodio della propria esperienza cinematografica che è utile a comprendere il concetto di segno di riconoscimento che è peculiare dell’iconografia, cioè l’introduzione di una serie di elementi, di segni che rendono subito riconoscibile la persona o la figura raffigurata. La conclusione, però, instaurando un parallelo diretto fra l’aneddoto raccontato e l’iconografia dei santi, è esilarante: «Mi vedo la madre di san Lorenzo che pianta una grana se il figliolo si fa vedere in giro senza il suo barbecue» (p. 22)
La conferenza raccolta in questa piccola pubblicazione fu pronunciata da Alan Bennet nel periodo in cui fu trustee della National Gallery (nomina ricevuta nel 1993) e verte intorno al rapporto fra lo scrittore e la pittura e le esposizioni d’arte. Non si tratta di una conferenza cattedratica, ma di un racconto brillante, ricco di considerazioni ironiche e disincantate che parte, soprattutto, da un approccio tutt’altro che serio e sacrale con le immagini: un modo di guardare, e di restituire sulla pagina, ben diverso dal modo aulico ed estetizzante di Bernard Berenson, che è il bersaglio iniziale delle prime pagine.
Ne è indicativa, in particolare, una definizione dell’iconografia, di cui si riconosce l’utilità come “antidoto” alla critica estetica: «Scoprire […] che i dipinti potevano essere decodificati, che erano anche esperienze intellettuali e non solo estetiche mi confortò parecchio, perché li inserì in un contesto più familiare e anche più inglese – se non altro perché gran parte dell’iconografia, raccontandoci chi è chi e cosa è cosa, può essere vista come una forma più elevata del nostro passatempo nazionale: il pettegolezzo» (p. 18)
Questo approccio, insomma, permette un rapporto meno reverenziale nei confronti dei capolavori, senza il timore di sottolinearne il lato paradossale ai nostri occhi, come il lato “ridicolo”, nella percezione di noi moderni, dell’iconografia dei santi («Conoscere i santi e le loro storie è un […] punto di chiacchiere. E qui a volte trovo difficile mettere a tacere il mio senso del ridicolo, anche se col tempo ho capito che ridere di un quadro non vuol dire non apprezzarlo. Mi è sempre sembrato che i santi e i loro simboli abbiano un lato comico, e alcuni più di altri.» p. 19; un esempio per tutti: «Quasi tutti i quadri sul martirio di san Sebastiano oscillano tra la pornografia e il ridicolo» p. 20). Una esperienza di fruizione, pertanto, che consente di fantasticare intorno alla pittura, di leggerla secondo la propria immaginazione, fino a congetturare i “problemi relazionali” di cui l’iconografia dei santi sarebbe sintomatica: «Secondo me il fatto che i santi non possano mai separarsi dagli strumenti del loro martirio e se li debbano portare appresso in ogni quadro è il sintomo di una grave insicurezza relazionale.» (p. 21). Per esprimere questo fatto, però, di passaggio Bennet racconta un episodio della propria esperienza cinematografica che è utile a comprendere il concetto di segno di riconoscimento che è peculiare dell’iconografia, cioè l’introduzione di una serie di elementi, di segni che rendono subito riconoscibile la persona o la figura raffigurata. La conclusione, però, instaurando un parallelo diretto fra l’aneddoto raccontato e l’iconografia dei santi, è esilarante: «Mi vedo la madre di san Lorenzo che pianta una grana se il figliolo si fa vedere in giro senza il suo barbecue» (p. 22)
domenica 11 maggio 2008
buon compleanno, mamma
Il post di oggi è dedicato a un’occasione particolare, in cui accavallano due feste: la festa della mamma e, in particolare, il compleanno della mia mamma (domani 12 maggio). Mi piace farle gli auguri mettendo una foto non proprio recentissima (né per lei né per me), ma sicuramente significativa, perché esprime un affetto che dura, per me, da sempre e che è, al contempo, un segno di gratitudine per una cura e una dedizione nei miei confronti di cui le riconosco molti meriti.
Certo, due feste concomitanti sono un po’ una fregatura, perché gli auguri te li fanno una volta sola, ma è anche vero che forse c’è un segno speciale, per noi almeno: è la festa di tutte le mamme, ma è soprattutto la festa della mia di mamma, sottolineata in modo distintivo!
Se sono diventato una persona curiosa nei confronti delle cose, appassionato con costanza e dedizione in quello che faccio, è anche perché ho avuto, ed ho, l’esempio di una persona che si è davvero dedicata senza risparmio a qualcosa in cui crede (nel suo caso è l’insegnamento, per me è altro, ma questo è poco importante).
Molte cose andrebbero aggiunte, ma forse sarà opportuno farlo altrove. Per il momento, conta di più, per me, fare gli auguri alla mia magnifica mamma che, se anche ora ha fra i capelli molti fili argentati, per me rimane sempre come in questa foto: tanti auguri, mamma.
Luca
lunedì 5 maggio 2008
BRESCELLO
Nel cinquantesimo anniversario del primo film della serie di don Camillo, il 2 giugno 2001, il comune di Brescello ha eretto in piazza Matteotti un monumento bronzeo dedicato ai due illustri protagonisti dei romanzi di Giovannino Guareschi e della fortunata serie di film dopo. A firmare il progetto lo scultore Andrea Zangani, che ha disposto due bronzi a grandezza naturale all’interno della piazza. Dal portone del municipio il bronzo di Peppone, levandosi il cappello, saluta i passanti, i quali, subito dopo, possono ricevere un saluto benedicente dal bronzo di don Camillo, di fronte alla chiesa di Santa Maria Nascente. Sono due sculture realiste (non iperrealiste, ma di quel realismo medio tipico di molta figurazione italiana), simili a certe sculture ambientali che si trovano nel nord Europa: persone che leggono il giornale sedute su una panchina di un parco, o intente in altre operazioni, che si mimetizzerebbero bene con la gente, se non fosse per il colore della patina di fusione a mostrare subito che non si tratta di persone vere. Per questo motivo, anche nel caso di Brescello non si tratta di due monumenti veri e propri, statuto che le due sculture avrebbero assunto automaticamente se fossero state poste sopra un piedistallo che le sopraelevasse rispetto al livello stradale. La scelta che è stata fatta, invece, è di ordine diverso, e coinvolge per intero lo spazio urbano della piazza come campo della rappresentazione, oltre a cercare un tono più accostante nei confronti dei turisti, che volentieri si fanno fotografare vicino a questi due bronzi come si fa con i pupazzi di Paperino o Topolino a Disneyland o, scendendo in ambito kitch, con il pagliaccio del Mc Donald. Al tempo stesso, pur non avendo una posizione dominante, questi due personaggi rubano la piazza, tanto che difficilmente ci si accorge della presenza, nello stesso contesto urbano, di un monumento vero, antico: un Ercole benefattore di Sansovino.
La cosa curiosa, però, è che si sia dedicato un monumento a due personaggi di finzione e che, nel raffigurarli, non si sia potuto fare a meno di esemplarli sul modello iconografico offerto dal cinema. Il monumento, qui, non è a Gino Cervi nei panni di Peppone o a Fernandel nei panni di don Camillo, perché il monumento non è dedicato all’attore, che viene raffigurato nei panni del ruolo interpretato che lo ha reso più celebre, ma è dedicato al personaggio in sé, soltanto che la fortuna cinematografica della serie rende impossibile una iconografia che non tenga conto di quel modello. Un caso diverso, insomma, da quando Hogart aveva ritratto un grande attore del suo tempo nei panni di un personaggio shakespeariano, o un’altra nota attrice come musa della tragedia: in quel caso, il soggetto rimaneva il ritrattato, e il titolo stesso esplicitava che il costume era un travestimento: la finzione, lì, era del tutto esplicita. Qui non si può dire altrettanto.
In un certo senso, è come se i due personaggi della finzione, narrativa e cinematografica, avessero assunto una vita completamente autonoma, quasi slegata dal loro creatore, Giovannino Guareschi, e che ha senza dubbio del tutto oscurato, ad esempio, i vari registi che ne hanno reso fattiva la restituzione nel film (Julien Duvivier, Carmine Gallone e, infine, anche Luigi Comencini).
È come se si fosse cristallizzato quel luogo nella facies che gli ha dato notorietà: il turista si aspetta di vedere la parrocchia di don Camillo, il municipio di Peppone, e che tutto l’ambiente risponda, per quanto possibile, a quello della finzione cinematografica. Quello che ci si aspetta, in fondo, è di ritrovare il set del film: non ci si reca a Brescello per visitare un luogo tramandatoci quasi intatto dal passato come potrebbero essere, ad esempio, Pienza o Sabbioneta, ma è come se si andasse a vedere un set del cinema, il luogo in cui si è girato un film, perché si vuole come avere l’impressione che, da un momento all’altro, il protagonista del film sbuchi fuori da dietro un angolo. Autorizza questa lettura alcuni cartelli turistici che segnalano i luoghi deputati in cui sono state girate determinate scene. E per quello che non si è potuto conservare in loco, è stato inaugurato, il 16 aprile del 1989, il "Museo Peppone e don Camillo", allestito nel Centro Culturale San Benedetto (sede della Casa del Popolo durante le riprese; su questo merita visitare il sito http://www.mondoguareschi.com). Insieme a numerose fotografie scattate durante la lavorazione dei film; i manifesti originali, le sale contengono numerosi cimeli del Don Camillo cinematografico: la moto di Peppone, il vestito di don Camillo, le biciclette usate dai due alla fine di Don Camillo e l’Onorevole Peppone (1955); non mancano poi persino le ricostruzioni della canonica di don Camillo e della cucina di Peppone. Di fronte al museo, poi, è stato collocato il carro armato Meium tank m26 usato sempre in Don Camillo e l’onorevole Peppone. Ma qui, che si tratti di finzione, è del tutto manifesto, perché un luogo del genere viene concepito per conservare cimeli, come reperti di un passato antico (un passato, in fondo, che costruisce un pezzo del nostro cinema). È nel tessuto urbano del centro cittadino che si verifica un fenomeno quasi surreale. Si a visitare un luogo vero, insomma, ma non per vedere un luogo storico, quanto un luogo della finzione: è questa, in qualche modo, a dare uno statuto di esistenza, e di richiamo, per un paese della bassa che diversamente entrerebbe con difficoltà nelle rotte del turismo.
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