Mark Haddon, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, Torino, Einaudi, 2003
Mi sembra un libro scritto in maniera intelligente e coerente, sicuramente riuscito nell’intento di calarsi nella mente di un ragazzo artistico e di restituire una vicenda ed una visione del mondo attraverso un filtro così particolare. È come se questo romanzo fosse il flusso coscienza del protagonista, anche se con una particolarità non irrilevante: nella finzione letteraria Chritopher non è solo il narratore interno che parla in prima persona, ma è anche, in forma metaletteraria, l’autore del romanzo. Da questo punto di vista, il romanzo è pensato come un libro in costruzione che Christopher scrive dall’inizio alla fine, senza mascherare che il suo obiettivo, nell’atto della scrittura, è proprio quello di scrivere il libro (e di trovare qualcosa da metterci dentro).
Va detto che Christopher, anche in virtù del disturbo mentale, emerge un po’ come un ragazzo di età incerta: non è chiaro se sia un bambino o un adolescente, giacché la sua crescita biologica non si evince, e il suo sguardo sulle cose è ammantato di una razionalità matematica (anche se una razionalità materialistica ma non ragionevole nelle sue espressioni).
Non ultima, poi, viene quella conflittualità con il padre, anche se a fine romanzo è difficile dire se questo personaggio susciti nel lettore più pena o più rabbia.
“La maggior parte delle persone però è pigra. Non vedono tutto ciò che li circonda. Fanno ciò che si definisce comunemente guardare di sfuggita che è l’equivalente dell’andare a sbattere contro qualcosa e tirare dritto senza farci troppo caso, come quando una pallina da snooker sfiora un’altra pallina da snooker. Le informazioni nella loro testa sono straordinariamente semplici.”
p. 162
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