Ogni tanto mi accorgo
di amarti ancora
come un peccato lo nascondo
con gli sguardi di sempre
ma nell'animo cascate
di solite malinconie e deserti
segreti
con il fuoco di te.
Se mi sfiori con la luna
cado spenta verso te
le tue braccia, azzurri cieli
per volare per capire
per soffrire per dimenticare...
Se mi sfiori come il vento
resto a vivere di te
poi mi porti via per mano
dove l'acqua sa di monte
neve sciolta. ..sa di noi.
Ogni tanto ti seguo
fra le gocce sui vetri
mentre ti fai piccolo ritorni chiaro
sopra il rosso di un faro
ma ritorna la mia mente
dove l'acqua sa di fonte
dove bello nasce il giorno
con il fuoco di te...
Se mi sfiori con la luna
cado spenta verso te
le tue braccia, azzurri cieli
per volare per capire
per soffrire per dimenticare...
Se mi sfiori come il vento
resto a vivere di te
poi mi porti via per mano
dove l' acqua sa di monte
neve sciolta... sa di noi
giovedì 29 maggio 2008
lunedì 26 maggio 2008
orrori a Castello

Ma il fatto più preoccupante, al di là del valore delle opere in sè (la cui sola cosa interessante, a mio parere, sono le acconciature e la foggia dei cappellini nei busti), è il fatto che dare uno spazio di importanza a una mostra importante significa anche avallare dei valori che queste opere veicolano. A me pare che questi bamboccioni di pietra (e sono anche marmi pregiati), siano solo in grado di veicolare il valore del niente, dell'azzeramento espressivo, di un prodotto artistico che richiede poco impegno per essere fruito (perchè c'è poco da fruire). Penso abbia ragione il mio amico Giancarlo, quando afferma che non è volgare l'opera d'arte erotica, ma è volgare l'opera fatta male!



domenica 18 maggio 2008
da leggere assolutamente: è breve e divertente!
Alan Bennet, Un visita guidata [2005], Milano, Adelphi, 2008
La conferenza raccolta in questa piccola pubblicazione fu pronunciata da Alan Bennet nel periodo in cui fu trustee della National Gallery (nomina ricevuta nel 1993) e verte intorno al rapporto fra lo scrittore e la pittura e le esposizioni d’arte. Non si tratta di una conferenza cattedratica, ma di un racconto brillante, ricco di considerazioni ironiche e disincantate che parte, soprattutto, da un approccio tutt’altro che serio e sacrale con le immagini: un modo di guardare, e di restituire sulla pagina, ben diverso dal modo aulico ed estetizzante di Bernard Berenson, che è il bersaglio iniziale delle prime pagine.
Ne è indicativa, in particolare, una definizione dell’iconografia, di cui si riconosce l’utilità come “antidoto” alla critica estetica: «Scoprire […] che i dipinti potevano essere decodificati, che erano anche esperienze intellettuali e non solo estetiche mi confortò parecchio, perché li inserì in un contesto più familiare e anche più inglese – se non altro perché gran parte dell’iconografia, raccontandoci chi è chi e cosa è cosa, può essere vista come una forma più elevata del nostro passatempo nazionale: il pettegolezzo» (p. 18)
Questo approccio, insomma, permette un rapporto meno reverenziale nei confronti dei capolavori, senza il timore di sottolinearne il lato paradossale ai nostri occhi, come il lato “ridicolo”, nella percezione di noi moderni, dell’iconografia dei santi («Conoscere i santi e le loro storie è un […] punto di chiacchiere. E qui a volte trovo difficile mettere a tacere il mio senso del ridicolo, anche se col tempo ho capito che ridere di un quadro non vuol dire non apprezzarlo. Mi è sempre sembrato che i santi e i loro simboli abbiano un lato comico, e alcuni più di altri.» p. 19; un esempio per tutti: «Quasi tutti i quadri sul martirio di san Sebastiano oscillano tra la pornografia e il ridicolo» p. 20). Una esperienza di fruizione, pertanto, che consente di fantasticare intorno alla pittura, di leggerla secondo la propria immaginazione, fino a congetturare i “problemi relazionali” di cui l’iconografia dei santi sarebbe sintomatica: «Secondo me il fatto che i santi non possano mai separarsi dagli strumenti del loro martirio e se li debbano portare appresso in ogni quadro è il sintomo di una grave insicurezza relazionale.» (p. 21). Per esprimere questo fatto, però, di passaggio Bennet racconta un episodio della propria esperienza cinematografica che è utile a comprendere il concetto di segno di riconoscimento che è peculiare dell’iconografia, cioè l’introduzione di una serie di elementi, di segni che rendono subito riconoscibile la persona o la figura raffigurata. La conclusione, però, instaurando un parallelo diretto fra l’aneddoto raccontato e l’iconografia dei santi, è esilarante: «Mi vedo la madre di san Lorenzo che pianta una grana se il figliolo si fa vedere in giro senza il suo barbecue» (p. 22)

Ne è indicativa, in particolare, una definizione dell’iconografia, di cui si riconosce l’utilità come “antidoto” alla critica estetica: «Scoprire […] che i dipinti potevano essere decodificati, che erano anche esperienze intellettuali e non solo estetiche mi confortò parecchio, perché li inserì in un contesto più familiare e anche più inglese – se non altro perché gran parte dell’iconografia, raccontandoci chi è chi e cosa è cosa, può essere vista come una forma più elevata del nostro passatempo nazionale: il pettegolezzo» (p. 18)
Questo approccio, insomma, permette un rapporto meno reverenziale nei confronti dei capolavori, senza il timore di sottolinearne il lato paradossale ai nostri occhi, come il lato “ridicolo”, nella percezione di noi moderni, dell’iconografia dei santi («Conoscere i santi e le loro storie è un […] punto di chiacchiere. E qui a volte trovo difficile mettere a tacere il mio senso del ridicolo, anche se col tempo ho capito che ridere di un quadro non vuol dire non apprezzarlo. Mi è sempre sembrato che i santi e i loro simboli abbiano un lato comico, e alcuni più di altri.» p. 19; un esempio per tutti: «Quasi tutti i quadri sul martirio di san Sebastiano oscillano tra la pornografia e il ridicolo» p. 20). Una esperienza di fruizione, pertanto, che consente di fantasticare intorno alla pittura, di leggerla secondo la propria immaginazione, fino a congetturare i “problemi relazionali” di cui l’iconografia dei santi sarebbe sintomatica: «Secondo me il fatto che i santi non possano mai separarsi dagli strumenti del loro martirio e se li debbano portare appresso in ogni quadro è il sintomo di una grave insicurezza relazionale.» (p. 21). Per esprimere questo fatto, però, di passaggio Bennet racconta un episodio della propria esperienza cinematografica che è utile a comprendere il concetto di segno di riconoscimento che è peculiare dell’iconografia, cioè l’introduzione di una serie di elementi, di segni che rendono subito riconoscibile la persona o la figura raffigurata. La conclusione, però, instaurando un parallelo diretto fra l’aneddoto raccontato e l’iconografia dei santi, è esilarante: «Mi vedo la madre di san Lorenzo che pianta una grana se il figliolo si fa vedere in giro senza il suo barbecue» (p. 22)
domenica 11 maggio 2008
buon compleanno, mamma
Certo, due feste concomitanti sono un po’ una fregatura, perché gli auguri te li fanno una volta sola, ma è anche vero che forse c’è un segno speciale, per noi almeno: è la festa di tutte le mamme, ma è soprattutto la festa della mia di mamma, sottolineata in modo distintivo!
Se sono diventato una persona curiosa nei confronti delle cose, appassionato con costanza e dedizione in quello che faccio, è anche perché ho avuto, ed ho, l’esempio di una persona che si è davvero dedicata senza risparmio a qualcosa in cui crede (nel suo caso è l’insegnamento, per me è altro, ma questo è poco importante).
Molte cose andrebbero aggiunte, ma forse sarà opportuno farlo altrove. Per il momento, conta di più, per me, fare gli auguri alla mia magnifica mamma che, se anche ora ha fra i capelli molti fili argentati, per me rimane sempre come in questa foto: tanti auguri, mamma.
Luca
lunedì 5 maggio 2008
BRESCELLO

Nel cinquantesimo anniversario del primo film della serie di don Camillo, il 2 giugno 2001, il comune di Brescello ha eretto in piazza Matteotti un monumento bronzeo dedicato ai due illustri protagonisti dei romanzi di Giovannino Guareschi e della fortunata serie di film dopo. A firmare il progetto lo scultore Andrea Zangani, che ha disposto due bronzi a grandezza naturale all’interno della piazza. Dal portone del municipio il bronzo di Peppone, levandosi il cappello, saluta i passanti, i quali, subito dopo, possono ricevere un saluto benedicente dal bronzo di don Camillo, di fronte alla chiesa di Santa Maria Nascente. Sono due sculture realiste (non iperrealiste, ma di quel realismo medio tipico di molta figurazione italiana), simili a certe sculture ambientali che si trovano nel nord Europa: persone che leggono il giornale sedute su una panchina di un parco, o intente in altre operazioni, che si mimetizzerebbero bene con la gente, se non fosse per il colore della patina di fusione a mostrare subito che non si tratta di persone vere. Per questo motivo, anche nel caso di Brescello non si tratta di due monumenti veri e propri, statuto che le due sculture avrebbero assunto automaticamente se fossero state poste sopra un piedistallo che le sopraelevasse rispetto al livello stradale.

La cosa curiosa, però, è che si sia dedicato un monumento a due personaggi di finzione e che, nel raffigurarli, non si sia potuto fare a meno di esemplarli sul modello iconografico offerto dal cinema. Il monumento, qui, non è a Gino Cervi nei panni di Peppone o a Fernandel nei panni di don Camillo, perché il monumento non è dedicato all’attore, che viene raffigurato nei panni del ruolo interpretato che lo ha reso più celebre, ma è dedicato al personaggio in sé, soltanto che la fortuna cinematografica della serie rende impossibile una iconografia che non tenga conto di quel modello. Un caso diverso, insomma, da quando Hogart aveva ritratto un grande attore del suo tempo nei panni di un personaggio shakespeariano, o un’altra nota attrice come musa della tragedia: in quel caso, il soggetto rimaneva il ritrattato, e il titolo stesso esplicitava che il costume era un travestimento: la finzione, lì, era del tutto esplicita. Qui non si può dire altrettanto.
In un certo senso, è come se i due personaggi della finzione, narrativa e cinematografica, avessero assunto una vita completamente autonoma, quasi slegata dal loro creatore, Giovannino Guareschi, e che ha senza dubbio del tutto oscurato, ad esempio, i vari registi che ne hanno reso fattiva la restituzione nel film (Julien Duvivier, Carmine Gallone e, infine, anche Luigi Comencini).
È come se si fosse cristallizzato quel luogo nella facies che gli ha dato notorietà: il turista si aspetta di vedere la parrocchia di don Camillo, il municipio di Peppone, e che tutto l’ambiente risponda, per quanto possibile, a quello della finzione cinematografica. Quello che ci si aspetta, in fondo, è di ritrovare il set del film: non ci si reca a Brescello per visitare un luogo tramandatoci quasi

Iscriviti a:
Post (Atom)