lunedì 15 ottobre 2007
Siparietti longhiani ad Alba
Il nome di Longhi porta un po’ sfiga: bistrattato a destra e a sinistra, la sua memoria non è sempre servita della serietà che richiederebbe, e non manca il rischio di diventare bandiera di battaglie che, forse, il “Professore” non avrebbe mai combattuto.
La mostra della sua collezione presso la Fondazione Ferrero di alba, sua città natale, ne è stata una riprova. Vado con il pullman della stampa che parte da Milano in piazza Castello: la solita compagnia di giovani canuti e non troppo arzille carampane, ma se non altro non si paga niente!
Non so per quale motivo, ma i luoghi longhiani sono connotati da una intonazione lugubre: anche la Fondazione Ferrero, infatti, ha qualcosa di funereo e qualcosa di ospedaliero, di un lindo candore razionale ma un po’ freddo, con i vasi di rose ed anterium bianchi abbinati. Si rimane gelati, ad esempio, dall’ingresso con un nartece di colonne bianche quadrate coperto a capriate, che termina con una porta a vetri, sopra la quale, come in una cappella di famiglia, una stele riporta i nomi dei tre fratelli Ferrero. Poco distante lo stabilimento industriale. Niente, già da fuori, mi toglie l’impressione di una moderna camera ardente cui sono stati tolti i drappi grigi e viola.
Anche entrando l’impressione non cambia, con certe pareti nere, scurissime.
Non mancano, questo è indiscutibile, opere che generano una forte commozione, come una forte commozione, come una strepitosa Madonna in trono col Bambino di Pietro da Rimini con intorno santi e angeli, con un indimenticabile Bambin Gesù in piedi sulle ginocchia della Madre, nella sua tunichetta lunga fino ai piedi, che strizza con due mani uno striminzito seno, ma con una tenerezza che pare una scena domestica. Oppure un piccolissimo Stefano da Ferrara che, per me, è stata una vera scoperta, con le sue figure uncinate e grifagne, violentemente espressioniste.
Ma tolgono il respiro, poi, anche i due Apostoli del Maestro del giudizio di Salomone, oggi riconosciute alla fase giovanile romana di Ribera.
A curare l’esposizione sono Gianni Romano, gran maestro degli studi piemontesi, e Mina Gregori, Presidente della Fondazione Longhi di Firenze, allieva prima e segretaria poi del “Professore” e nume tutelare della dimora longhiana; entrambi presenti qui per la presentazione alla stampa in auditorium. Dopo il breve intervento di Romano, durante il discorso della signora Gregori, arriva Vittorio Sgarbi, che viene fatto accomodare al banco, aspettandone un intervento. Non appena viene portata una sedia a Sgarbi, il professor Romano si alza inaspettatamente dal suo posto, scende dal palco e va a sedersi in platea.
Segue poi un discorso fiume, del tutto imprevisto, di Sgarbi assessore, che non manca l’occasione per fare il solito sproloquio sul mal costume italiani, sulla meschinità dell’amministrazione pubblica che boicotta le sue mostre. Il fianco, qui, è offerto dalla mostra longhiana del 1951: non si può fare più, oggi, una mostra come quella del 1951, perché non si riescono ad avere tutti quei prestiti che si riusciva ad ottenere allora. Oggi, sostiene nella sua logica, è anzi difficle addirittura avere un solo Caravaggio per una mostra, nello specifico la sua “LE ceneri violette di Giorgione” a Palazzo Te a Mantova, dove gli venne negata la Conversione di Saul della collezione Odescalchi: autorizzato dalla principessa, col placet della Soprintendenza, viene bloccato dall’istituto Centrale del Restauro, avanzando problemi conservativi, “per ricatto moralistico” (tanto che, una volta in mostra, dopo un mese viene di nuovo portato via). “Tutti siamo fragili!” in fondo, per cui perché non far fare un viaggio di più di cinquecento chilometri ad un capolavoro di quattrocento anni fa: in fondo tutti dobbiamo morire e nulla è eterno!
Non mancano poi divagazioni elogiative per Mina Gregori, come la più fedele a Longhi, non invischiata con il mercato (!), mentre il Professore era tirato per la giacchetta da Previtali verso il marxismo, tanto da far pubblicare il Caravaggio dagli Editori Riuniti, de “Il Manifesto”, anziché dalla gentiliana Sansoni, “troppo fascista”! E divagazioni ancora su Longhi come scrittore fra i più grandi del Novecento che non si è dedicato al romanzo o alla commedia bensì alla critica d’arte con una poeticissima vena letteraria, i dissidi con Berenson e con De Chirico, per poi ricordare il dissidio fra Brandi e Zeri, specie dopo che Einaudi aveva pubblicato il brandiano Disegno della pittura italian, che Zeri definì disdegno, tanto da indurre Einaudi, per sanare la piaga, a fra curare la sua “Storia dell’arte italiana” dai due rivali Previtali e Zeri, appunto.
Ma la fluviale ispirazione di Sgarbi non si era esaurito, fino ad arrivare alla definizione dell’approccio di Longhi come “un amore erotico per le opere d’arte” e notare come sia bello leggere, ad esempio, nel Viatico per cinque secoli di pittura veneziana la trama in tralice degli odi e delle antipatie del Professore, da una cattiveria feroce e letteraria verso “chi non capiva” come il non amore, altrettanto feroce, per Tiepolo, “tanto che Calasso dovette scrivere un libro riparatore: ‘Rosa Tiepolo’”. Da qui mi sfugge il nesso ad affermazioni come “le opere servono ad appoggiare il pensiero dello studioso” (ma ne siamo proprio sicuri?) e chiudere ricordando Croce, sotto embargo comunista ma veicolato da Longhi, e ricordando Arcangeli.
Non poteva mancare quindi una aggiuntina politica della Gregori, che improvvisamente si dichiara allieva di Croce, per via del suo sforzo di tenere la cultura fuori e distante dalla politica, perché questa fu la sola voce di conforto per gli antifascisti. Per questo, dopo Croce, “Longhi andava benissimo”. Ma la signora Gregori non si ferma qui, lanciandosi in un motto spericolato: “Il museo è la morte dell’arte”, perché le opere non si muovono più, convinzione da cui aveva maturato un grande interesse per il mercato, dove le cose invece si muovono (per poi prendersela più tardi, in mostra, con i giapponesi che, nei musei fiorentini, passano davanti alle opere senza nemmeno guardarle.
Finito il discorso, ecco che Romano si alza, torna sul palco ma non si siede di nuovo, limitandosi a rassicurare i presenti che “non era previsto il folklore finale” e chiosando: “per il resto spero che Croce, Longhi e Arcangeli non si rivoltino nella tomba.” a cui fa eco un grido di invettiva di Sgarbi: “Ladro!” accusandolo di essere la persona meno adatta a fare del moralismo dopo la vicenda della scultura di Giambologna che il comune di Torino decise poi di non acquistare. Anche la signora Gregori, comunque, nel successivo rinfresco, si è mostrata piccata del fatto di essere stata inclusa fra il “folklore”, mentre uno stormo fitto di giornalisti e giornalistucoli armati di taccuino si assiepava intorno a Sgarbi, nel suo pieno ruolo di icona mediatica, che rubava la scena ai diretti curatori (perché si deve riprendere Sgarbi che commenta il Ragazzo morso dal ramarro quando c’è Mina Gregori che a questi argomenti ha dedicato una vita di studi?) raccontando la sua verità sul caso Giambologna a Torino (l’occasione era buona per fare una dichiarazione alla nazione!).
Uno spettacolo non edificante, in un’occasione pubblica, che restituisce un’immagine molto poco limpida della categoria.
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4 commenti:
Allora Nico, ci siamo fermati con questi blog? Io almeno posto i miei insuccessi! Tutto bene tu??
Ciao cugino (me l'hai detto tu di commentare così ^.^)
Maria Cristina
Perche non:)
Si, probabilmente lo e
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