martedì 12 marzo 2013
Per don Marco Redaelli (1936-2013). Salesiano
Apprendo questa sera, dagli annunci funerari, della morte di don Marco Redaelli, parroco ad Arese per molti anni, salesiano. Lo apprendo con un velo di tristezza, non soltanto perché una nota di mestizia accompagna qualsiasi congedo, ma pensando che don Marco ha finito il suo pellegrinaggio terreno, non per sua scelta, lontano da questa comunità.
Era stato ordinato sacerdote più di cinquant’anni fa, missionario, in Brasile, a cui è sempre rimasto legato a doppio filo: il suo impegno più grande, quasi esclusivo in alcuni momenti della sua vita, è stato rivolto alla povera gente delle grandi città di quel grande paese, sia negli anni che passò dall’altra parte dell’Oceano, sia dopo il suo ritorno in Italia. Non ha mai smesso, finché ha potuto, di provvedere ai più poveri, fondando l’associazione “Uniti per la vita” per le adozioni a distanza. È attraverso di lui che qui ad Arese, nel relativo benessere di questa piccola città benestante, si è sentito parlare dei ninos de rua, e della lezione di solidarietà, ma anche di speranza e, per assurdo, della gioia che questi sapevano avere nonostante l’indigenza.
Ad Arese, don Marco è stato il prete che sapeva parlare ai bambini, che amava i più piccoli come li amava don Bosco: così, almeno, possono ricordarselo molti della mia generazione, che la domenica andavano alla messa “di don Marco”, in una piccola chiesa nuova, piuttosto strana, dove si faceva anche il catechismo. Perché don Marco parlava a loro, con modi semplici: non era un prete-teologo, ma un sacerdote da oratorio, che amava il contatto con la gente, che capiva i bambini perché a sessant’anni aveva conservato, sotto le rughe, la loro stessa ingenuità e una sorta di stupore affettuoso. Furono sue le parole più sensibili in uno dei funerali più difficili da celebrare, per una nostra coetanea appena quattordicenne, nel 1997: come fare a trovare un senso in una tale tragedia? Non lo si poteva nascondere, ma don Marco sapeva anche che non si poteva nascondere che anche da una giovanissima come Ada anche lui, non più giovane, aveva avuto qualcosa da imparare. Tutto questo significa ancora qualcosa, e non può essere cancellato da quello che è accaduto dopo. A me piace ricordarlo nella sua indole bonaria, stralunata talvolta, e lo sfegatato tifoso del Milan, che era il suo tratto più divertente: il tratto umano di un uomo semplice e, soprattutto, sincero, che in molti hanno amato.
È difficile dimenticare l’inaudita violenza con cui la macchina del fango lo ha investito nei suoi ultimi anni: un calvario lungo e doloroso, da cui ingiustamente è rimasto schiacciato. L’ultimo ricordo che ho di lui era di un uomo affaticato, deluso, solo, che si chiedeva perché, dopo un’esistenza spesa per il prossimo, una Croce così pesante fosse caduta proprio sulle sue spalle, quando non aveva più la forza di portarla, e col dolore di vedere spazzato via, da un’opinione pubblica troppo pronta a scagliare la prima pietra, il senso di un apostolato in cui non aveva smesso di credere. Non ho mai creduto, né mai potrò dare credito alle infamie che lo hanno voluto seppellire, e so di non essere l’unico a credere ancora nella sincerità e nella bontà di intenti di don Marco Redaelli. Ma so e credo che una giustizia divina esiste, anche quando non siamo in grado di leggerne i disegni, e so che ad essa ci si deve affidare. Di questo è giusto, anzi doveroso rendere testimonianza. (Arese, 12 marzo 2013).
martedì 12 febbraio 2013
Nella vigna del Signore. Le dimissioni di Benedetto XVI.
Non nascondo una certa commozione nel leggere il discorso con cui Benedetto XVI ha annunciato di rinunciare alla cattedra di San Pietro. Rispecchia l’umiltà riservata di chi aveva aperto il proprio pontificato come un umile operaio nella vigna del Signore, e che, chiudendo una stagione, ringrazia i propri collaboratori «di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti».
Si scorge, fra le righe, la coscienza di misurarsi con un predecessore che fece una scelta diversa («Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando») e come quel modello non fosse, allo stesso tempo, replicabile soltanto otto anni più tardi. Del resto, già dopo i primi mesi di pontificato, i critici più attenti (penso al libretto di Melloni pubblicato da Einaudi nel 2006) avevano messo bene a fuoco come la scelta di Ratzinger a nuovo pontefice fosse una scelta di “decantazione”, cioè la scelta di una continuità teologica, ma un mutamento di carisma: meno esuberante, meno “titanico”, forse meno “comunicativo” di fronte ai modelli della comunicazione di massa, ma con una visione teologica altrettanto lucida e decisa, anche se spesso fraintesa. Lo dice bene un libro critico ma intelligente, ben lontano dalla polemica sterile, come quello di Marco Politi per Laterza (di cui curiosamente è uscita una nuova edizione aggiornata proprio pochi fa), che già lo scorso anno parlava, a ragione, di Crisi di un papato: una crisi politica (non teologica) che non trascura l’annoso e aggrovigliato rapporto fra pontefice e curia romana.
D’altra parte, aveva destato un certo sgomento l’audacia con cui, da cardinale, nelle sue meditazioni per la Via Crucis del Venerdì Santo del 2005, sotto forma di invocazione, alla IX stazione, aveva fotografato con chiarezza lo smarrimento della Chiesa di fronte ai tempi moderni: «Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa: anche all’interno di essa, Adamo cade sempre di nuovo. Con la nostra caduta ti trasciniamo a terra, e Satana se la ride, perché spera che non riuscirai più a rialzarti da quella caduta; spera che tu, essendo stato trascinato nella caduta della tua Chiesa, rimarrai per terra sconfitto. Tu, però, ti rialzerai. Ti sei rialzato, sei risorto e puoi rialzare anche noi. Salva e santifica la tua Chiesa. Salva e santifica tutti noi».
Rileggendo queste parole, che precedono di poco la sua elezione al soglio di Pietro, non ci si stupisce leggendo, nel discorso di oggi, che « nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo». La Chiesa ha già avuto, sembra voler dire, un esempio di virtù eroica di teologia della sofferenza, cioè una dimostrazione concreta di cosa significasse l’evangelico «prendi la tua croce e seguimi» (Matteo 16,24) nei lunghi anni di malattia di Giovanni Paolo II. Ma era chiaro che Benedetto XVI avrebbe preso una via diversa, consapevole, come scriveva sempre nelle meditazioni del 2005, di «quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!». Non che il suo predecessore non ne avesse consapevolezza, ma era un altro, di fondo, il messaggio carismatico (non quello teologico) e il modello di santità che proponeva: un messaggio di gesti, da una parte, un messaggio rivolto soprattutto alla parola nell’altro. Benedetto XVI è stato (a torto) un papa troppo poco letto, pur avendo scritto alcune delle pagine belle su Cristo e sulla Chiesa (fra i tanti, commovente il primo libro su Gesù di Nazaret, illuminante l’Introduzione allo spirito della liturgia).
Il gesto annunciato questa mattina lascia senza dubbio spiazzati: è un colpo di scena che decisamente non ci si sarebbe aspettati, ma che in fondo non deve stupire. Da una parte, il libro intervista con Peter Seewald (Luce del Mondo. Il Papa, la Chiesa, i segni dei tempi) poteva farlo presagire, insieme a una serie di decisioni recenti che, a posteriori, si possono vedere come un mettere a posto le cose prima di congedarsi. Del resto, non sono nuove, nel collegio cardinalizio, le posizioni a favore di un ricambio periodico ai vertici della Chiesa: ne era stato un tenace assertore il compianto cardinal Martini, più vicino di quanto si possa pensare, da un certo punto di vista, alle posizioni prese dall’attuale pontefice (merita ricordare la bella recensione di Martini al primo libro di Benedetto XVI su Gesù, sul “Corriere della Sera”). Benedetto XVI non era per nulla obbligato a lasciare il soglio di Pietro, e la grande macchina del Vaticano sarebbe andata comunque avanti da sola: la storia è piena di monarchi infermi che lasciarono questa terra con la corona sul capo, anche se il timone non era più saldo nelle loro mani come prima. Questa scelta, ridisegna la fisionomia di un pontificato che fin dagli inizi si era annunciato di breve durata, ed è un segno chiaro e irripetibile di un modo di intendere l’Ecclesia in senso collegiale: una risposta politica, teologica ed ecclesiologica, a un’annosa questione sul rapporto fra Chiesa e democrazia, e se sia possibile, e in che modo, una democrazia nella Chiesa, pur rispettando una tradizione ecclesiale e scritturale...
Nella sua semplicità, nel suo rimettere nelle mani del Signore le chiavi di una vigna ormai troppo faticosa, questo non è un gesto di debolezza o di impotenza («Per quanto mi riguarda» conclude, «anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio»). Non si può leggere un segno così radicale (perfettamente in linea con la lucidità senza sbavature del teologo bavarese) solamente nell’intimità di uno stato di umana fragilità: di fronte a un inevitabile declino fisico questo è un ultimo, potente colpo di coda. La barca, probabilmente, continua a fare «acqua da tutte le parti», e altri la condurranno secondo i disegni della Provvidenza: ma questo è un segno decisivo di profonda coscienza, sia intellettuale sia di fede. Un segno da leggersi con la fiducia di quelle parole, rivolte a se stesso, del primo discorso di saluto, quel 19 di marzo 2005: «mi consola il fatto che il Signore sa lavorare ed agire anche con strumenti insufficienti».
martedì 31 luglio 2012
Per Ivana Bristot Martinenghi (14 marzo 1930-13 luglio 2012)
Dire che avesse un carattere deciso sarebbe un eufemismo; di certo Jvana Bristot Martinenghi non si lasciava intimidire da nulla e da nessuno per arrivare ai propri obiettivi. E lo faceva non per ambizione personale, ma per amore del genere umano: di certo Jvana è stata una delle persona più generose che abbia mai conosciuto.
Eppure, nonostante l’abbia frequentata per anni, mi rendo conto, ora, di quanto sia difficile tracciarne un ritratto esaustivo. O, meglio, di quanto sia difficile scriverne un ricordo senza correre il rischio di dipingerne un santino, e di rinchiuderla in quell’aura olografica di beatificazione che la collocherebbe lontana dalla realtà e, soprattutto, dalla possibilità di seguirne le orme. E l’esempio dato da Jvana, al contrario, è qualcosa di estremamente fattivo, concreto, e come tale deve essere ricordato e imitato: il rischio delle celebrazioni è di tenere le cose a distanza, di costruire degli emblemi irraggiungibili nella loro rara virtù, di relegare le persone in un empireo di torpore che non provoca le nostre coscienze. Jvana, al contrario, è sempre andata in profondità nelle cose, mai senza una scelta che non fosse un’assunzione di responsabilità sia individuale sia collettiva. Lo ha detto molto bene Gino Perferi, ex sindaco di Arese, in una lettera aperta rivolta all’amica appena scomparsa: «non Ti sei limitata ad incontrare ma Ti sei preoccupata di proporre sempre e comunque nuove iniziative e nuove attività. Non contenta di averne parlato, per paura che il tutto cadesse nel vuoto, traducevi in una lettera il progetto per avere la certezza che il medesimo fosse stato recepito. Non contenta di questo se necessario, e spesso lo era, ricontattavi la persona sempre nell’ottica che nulla andasse perduto. Sei stata una vera forza della natura che non si fermava di fronte a qualsiasi ostacolo.»
Perché Jvana, in effetti, era un vero carro armato che non si lasciava dissuadere dal primo ostacolo, o che si rassegnava all’indifferenza delle amministrazioni pubbliche.
Era stato questo spirito che le aveva permesso, nel 1984, di fondare la sezione di Arese della Confraternita di Misericordia, e di portare la prima ambulanza in quella che allora era una cittadina in piena espansione, ai confini dell’Alfa Romeo, dove stava acquistando una sua fisionomia urbana. C’erano le case, c’erano le ville, ma non c’era assistenza, e Jvana, lo ha ricordato bene Pierantonio Giudici (“Settegiorni”, 20 luglio 2012), di fronte a un giovane motociclista morto per un ritardo nei soccorsi, aveva avuto l’intraprendenza di non arrendersi, e di portare il pronto intervento anche in questa piccola realtà. Era solo l’inizio di quella iniziativa personale che avrebbe poi maturato l’adesione alla “Misericordia”, di cui è stata presidente fino al 1997, ma a cui è rimasta amorevolmente affezionata per tutta la vita: era una sua creatura, che l’ha fatta soffrire, ma che partiva da un progetto in cui aveva sempre creduto. Soltanto le centinaia di persone soccorse, e spesso salvate nelle situazioni più difficili, basterebbero come nota di merito e di gratitudine.
Quando l’ho conosciuta, avevo appena preso la licenza media, nel 1998. Non sapevo nulla di lei. Ero un po’ prevenuto, a dire la verità, perché in una piccola città i maligni e gli invidiosi non mancano, ed io, ignaro, avevo creduto a certe malelingue. Ci eravamo conosciuti grazie a un gruppo di poeti locali, i “Poeti delle Groane”, che avevo appena cominciato a frequentare, e che avrei frequentato per qualche anno, di cui Jvana faceva parte. Accanto al volontariato, infatti, non le era mai mancata una genuina, forse ingenua ma sincera vena poetica, e nel gruppo si era spesa con la stessa energia che aveva messo nel volontariato. Una poesia di sentimenti, la sua, come registrazione spontanea di emozioni, senza troppe preoccupazioni di forma e di stile, ma diretta e preoccupata di una comunicativa immediata. Ricordo un comune amico attore, che avevo sentito recitare alcuni suoi versi, dirmi che riusciva a interpretare meglio i suoi testi, rispetto a quelli di altri, forse perché li capiva di più!
È bastato poco, comunque, per rendermi conto dell’errore in cui ero incorso nei suoi confronti, e che Jvana era una persona forse un po’ cocciuta, ma senza dubbio carismatica, e che tanto aveva dato di sé, e che tanto aveva anche sofferto, talvolta persino a causa del bene che aveva fatto. Non mi ci era voluto molto, insomma, a capire che era una di quelle persone che non ti lasciano indifferente, e che una volta incontrare non si dimenticano più. Da allora ha voluto bene anche a me come se fossi un nipote, anche se di nipoti di sangue ne aveva già molti. Ma da subito non aveva esitato ad aprirmi qualche finestra della sua lunga e tortuosa esperienza di vita. Non bisogna infatti dimenticare che l’Jvana grintosa e intraprendente attiva ad Arese per più di trent’anni aveva alle spalle un retroterra travagliato e avventuroso, in cui si mescolavano i ricordi della Libia -quasi una terra promessa dell’infanzia prima e rivista poi con occhi più adulti, finchè gli italiani han potuto risiedere in quel paese- e una adolescenza in tempo di guerra di certo non facile. Jvana non si è mai dimenticata, infatti, il fucile dei partigiani nella schiena, quando erano venuti a prendere suo padre Augusto, un uomo che lei ha sempre adorato e additato come un esempio di generosità, di dignità e di virtù. Ma gli inglesi lo avevano arrestato dopo la Liberazione, rovinandolo, raccontava, irrimediabilmente, e rendendo difficile la vita anche a lei e alle sue sorelle. A lei, che era un bellissima quindicenne, tutto questo era costato in prima persona: dal mondo ovattato delle ragazze di buona famiglia cresciute nel regio educandato delle fanciulle di Milano, infatti, era piombata nella vita di miseria e di stenti, a doversi rimboccare le maniche per mantenere la famiglia. Il baciamano e le buone maniere della bella società, in quel momento, servivano a poco per mantenere una famiglia, e a lei, la maggiore di quattro sorelle, questo era costato dei sacrifici: primo fra tutti, con enorme dispiacere, dover abbandonare gli studi. Non riusciva, sua madre da sola, a far studiare tutte e quattro le figlie, e Jvana l’aveva sentita confidare quanto fosse combattuta, in quel momento, a dover far smettere gli studi alle figlie: avrebbe dovuto dire a Jvana, essendo la maggiore, di smettere e occuparsi delle sorelle più piccole, ma questo non le sembrava giusto, per cui preferiva far smettere a tutte, anche se la secondogenita era una studentessa promettente. Anche Jvana ne era cosciente, e decise di sua iniziativa di abbandonare gli studi, affinché la sorella proseguisse fino alla laurea: fece credere a sua madre che studiare non le interessava, e che preferiva lavorare. In cuor suo, invece, avrebbe sempre rimpianto quella scelta: il desiderio di conoscere, di imparare, l’avrebbe accompagnata sempre, cercando di recuperare in qualche modo il tempo perduto. Certo furono tentativi asistematici, mossi più dalla passione che da un percorso programmato, ma questo non le aveva impedito di diventare un’educatrice attenta e premurosa.
Si potrebbero (e si dovrebbero) dire ancora molte cose di Jvana: la sua vita andrebbe tutta scritta in modo piano e ordinato, come si fa per la vita dei santi. Prima o poi bisognerà prendere la decisione di farlo. Dalle poesie e da alcuni racconti si recuperano dei lacerti di questa esperienza, che andranno riuniti per lasciare una traccia di questo suo grande esempio.
A me rimane il rammarico di non aver annotato, volta per volta, i suoi lunghi racconti: era fra i propositi rimandati troppo a lungo, fino a rendercisi conto, nel momento sbagliato, che era ormai troppo tardi. Queste parole sono solo un omaggio sbiadito verso una cara amica, a ottant’anni ancora molto più giovane di molti giovani di anagrafe, per ricordare questo lungo affetto. Ma è anche un omaggio a un grande esempio: in tutto quello che ha fatto, Jvana aveva sempre precisa l’idea di cosa fosse la trasparenza, il rigore e, soprattutto, la correttezza dei rapporti umana. Non sempre è stata ricambiata: non tutti sono stati capaci di apprezzare, in quella franchezza a volte brusca ma mai insolente, quella limpidezza di intenzioni e quella cura perché le cose fossero fatte come andavano fatte. Il rispetto, insieme all’amicizia, sono valori in cui ha sempre creduto, e che ha sempre trasmesso: significava capire che nei rapporti umani era necessario, prima di tutto, un rispetto reciproco e una comunicazione trasparente, senza sotterfugi o mezze parole, perché chi non ha nulla da nascondere non ha motivo di non essere sincero e corretto nei rapporti con gli altri.
Ma se c’è un insegnamento che più di altri si può trarre dalla vita di Jvana è il significato di spendersi per il prossimo disinteressatamente: fare del bene senza un interesse personale, senza averne o aspettarsi un ritorno. È quanto ha sempre cercato di trasmettere ai “suoi” volontari (e non solo), cioè l’intima gioia di aiutare chi ha bisogno, perché lo spirito del volontariato è proprio quello di non voler trarre né profitto né guadagno, se non un arricchimento interiore.
E questo non significava soltanto darsi al volontariato attivo o all’opera di soccorso: era un modo di vivere, un “abito” da indossare nel quotidiano. Ancora negli ultimi giorni, in un letto d’ospedale, le dispiaceva sentire la sua vicina di corsia sofferente e non poterla aiutare: e avrebbe avuto di che pensare ai propri guai e alle proprie sofferenze. Ma la divisa del soccorritore non si smette mai, nemmeno quando ci si prepara all’incontro con nostro Signore.
lunedì 16 gennaio 2012
domenica 15 gennaio 2012
mercoledì 17 agosto 2011
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